…nasce dall’attrazione degli opposti lo spettacolo-performance il figlio di Gertrude. Da una parte Lorenzo Gleijeses, giovane attore napoletano, dall’altra a dirigerlo Julia Varley, storica attrice dell’Odin Teatret. L’allievo parte da Totò e Pino Daniele, evoca Maradona, esprime la vitalità del Sud. Cercando quindi un punto d’incontro nella figura di Amleto, lui ci arriva attraverso la napoletaneità di Leo, Moscato, Ruccello. In un suggestivo deposito di oggetti scenici dal segno geometrico, Lorenzo parte dalla manifestazione istintiva di se stesso ma non smette di reinventarsi: il pazzariello rivela un attore che gli fa il verso, cerca un’identità attraverso una gamma di gesti e stati d’animo, danza con le mani, arrovescia gli occhi, si cerca fra le suggestioni cangianti dei suoni, insegue un personaggio e una madre”.
Franco Quadri, La Repubblica
… nessuno si era prefissato il compito di fare di Amleto l’eroe straziato e, al tempo stesso divertito, di un assolo virtuosistico in cui le più accreditate interpretazioni del personaggio confluiscono nell’ambito di una prova d’attore concepita come dimostrazione assoluta di tutte le virtualità dell’eroe. Julia Varley ha lavorato magistralmente sul tessuto fonetico e la prestanza fisica di un attore inedito: Lorenzo Gleijeses. Gleijeses infine insinua, da piccolo maestro dell’immaginario, il sospetto che a creare la tragedia sia stato un bambino che ad ogni costo non vuole evadere dalla stanza dei giochi”.
Enrico Groppali, Il Giornale
…in scena si scatena in tormentate performance di sapore grotowskiano; Lorenzo Gleijeses di strada ne ha percorsa dall’esordio in un teatro di repertorio con il padre Geppy ed altri registi di nome, fino alla scelta di ripartire da zero studiando con maestri come Lindsay Kemp, Nekrosius e Karpov, fino a questo “Il figlio di Gertrude”. Lanciando un ponte tra Napoli e Copenaghen percorribile in molte direzioni, un riepilogo, in fondo, del suo apprendistato e dei suoi dubbi.
Nico Garrone, La Repubblica
…il giovane Lorenzo Gleijeses evidentemente mosso da un’inquieta vena di ricerca personale che lo ha spinto, in questi anni, a confrontarsi con le figure più diverse di maestri della scena da Nekrosius a Lindsay Kemp a Yoshi Oida. Da tempo fra i suoi incontri decisivi c’è quello con l’Odin Teatret di Eugenio Barba. Questo Amleto che si sogna più attore che aspirante principe si lascia andare ad assemblare i più svariati autori, da Enzo Moscato ad Heiner Muller passando persino per Cechov. Gleijeses, che su questi materiali ha lavorato a lungo, ce la mette tutta, recita, canta, danza, passa dalla lingua al dialetto, si misura con una serie di gelidi oggetti metallici: si vede che ci crede fino in fondo”.
Renato Palazzi, Del Teatro
… Julia Varley, prestigioso nome del teatro internazionale in coppia con un – emergente di talento -. Un percorso non lineare, imperfetto e seducente, carico di tensione e di energia, appassionato e impreciso nella sua definizione immaginaria, in cui fantasmi e concrete presenze della memoria s’intersecano e si danno il cambio in una costruzione di fisicità ed astrazione”
Giulio Baffi, La Repubblica
di Lorenzo Gleijeses
La performance nasce da una sorta di tirocinio, un apprendistato iniziato nel 2001. Un percorso che si è immediatamente sviluppato in due direzioni contemporaneamente: da una parte c’è stata la scuola, l’insegnamento di come agire su un palcoscenico, in che modo costruire una presenza scenica, lavorare sulla scena sfruttando fino in fondo le possibilità espressive del corpo e della voce, cercando di elaborare un proprio training personale; dall’altra parte c’era il lavoro quotidiano in sala prove, sempre più finalizzato alla creazione di materiali che componessero una vera e propria performance: la scelta dei testi, la ricerca e la creazione dei costumi e degli oggetti, la relazione con la musica, l’elaborazione di danze e partiture fisiche. Una scuola teatrale a 360°: come essere attore nello spazio teatrale contemporaneo, come creare uno apettacolo a partire dallapropria esperienza individuale del mondo. In un primo momento i due ambiti erano nettamente scissi, ma ben presto cominciarono a convivere in un mutuo scambio creativo. Dapprincipio Julia mi chiese di presentare qualsiasi tipo di materiale che potesse servire per la performance: la proposta di improvvisazione fisiche e vocali, l’esecuzione di canti e danze, l’elaborazione scenica di frammenti tartti da pièce che pacevano parte del mio bagaglio culturale, delle mie esperienze teatrali dirette e perciò di un vissuto prettamente personale. Non mi chiese materiali che nascessero esclusivamente da uno stesso tema, nella prima fase del nostro lavoro mi permise anzi di sfogarmi e spaziare in molteplici direzioni: iniziai a proporre improvvisazioni su testi di beckett e di Carmelo Bene e di Antonin Artaud, di Julian Beck e del grande Totò… “Credeva che le parole dei poeti fossero le sue”… Ho usato le parole di questi Maestri per mettere al mondo e per tentare di dare forma a un magma di sentimenti tuttora indecifrato e indecifrabile anche e sopratutto per me stesso. Nel primo anno di lavoro lasciando libero di sgorgare questo magma, stimolando la mia inventiva e osservando i materiali che di volta in volta le presentavo, in qualche modo Julia iniziava a conoscermi, a capire come la pensavo sulla vita, sull’amore, sulla politica, sulla società, quali erano le mie inquietudini, le mie paure, i desideri che coltivavo, cosa odiavo, cosa amavo… perchè. I Maestri iniziavano lentamente a lavorare su di noi, rivelando alla regista la sostanza dell’attore e verso quale strada dovesse indirizzarsi la sua performance. I Maestri, pur nella diversità evidente che li caratterizzava, stavano decidendo per noi e ci stavano sottilmente suggerendo quale aspetto della nostra esperienza umana dovevamo appofondire e metere a fuoco nella performance, che in quel momento era solo un insieme di manate confuse di vernice, di macchie, spruzzi e scosse di colori, a momenti addirittura contrastanti, ma in cui ogni piccola sfumatura era sinceramente generata dalla sensibilità dell’attore e dal suo desiderio di comunicare ed esprimersi sulla scena. Julia osservava e seguiva con pazienza questi miei frammenti sconnessi di pensiero, questi brandelli di coscienza, così come un uccello migratore segue in volo le correnti di aria calda che conosce e sa che gli permetteranno di portare a compimento il suo viaggio, ma anche di scoprire altre strade attraverso le quali poter raggiungere la meta prefissa: la creazione della performance. Un lavoro caratterizzato da un confronto costante tra due modi diversi di fare teatro, dal compenetrarsi di due tradizioni diverse: l’incontro-scontro tra la precisione e la perizia odiniana sugli aspetti puramente teatrali, come la presenza scenica del performer o l’importanza dell’occhio dello spettatore, il lavoro di alto artigianato sulla tecnica dell’attore, e la percezione precisa delle infinite risonanze, che un gesto, una parola, o una certa musica possono suscitare in chi lo guarda ed ascolta; che venivano contaminati dalla sperimentazione letteraria, in chiave estetico-formale che caratterizza i Maestri della scrittura contemporanea come Enzo Moscato e Annibale Ruccello, i quali costituiscono una parte ineludibile della mia vita artistica. In tal modo, attraverso una dialettica continua di proposte teoriche e lavoro pratico la performance iniziava giorno dopo giorno ad avere una consistenza precisa, e Julia lasciava che il materiale prendesse vita, non scegliendo mai nulla a priori, proprio come ci si comporta con un essere che ha una vita propria e che quindi può sciegliere da sè. Il risultato è un incontro tra tradizioni, lingue e culture inevitabilmente differenti, ma che, proprio in virtù di ciò, fa scaturire immediatamente un’affascinante relazione, tra mondi che sembravano non essersi incontrati mai prima.
di Julia Varley
Il processo di preparazione di questo spettacolo è durato tre anni. Il tema ora non è più lo stesso dell’inizio. Il protagonista non è più l’attore che si muove sulla scena, ma una donna che dallo sfondo della storia rifiuta di essere una statua da adorare o maledire. Alla fine è lei che, ignorando gli appalusi e le luci della ribalta, disinteressandosi delle grandi parole o del potere conferito dai ruoli, si allontana diventando la vera protagonista malgrado non voglia essere il centro dell’ttenzione. All’inizio del processo di lavoro era presente l’ombra della follia.
Sembrava l’unica via d’uscita per un giovane ribelle ed esasperato, accompagnato solo dal suo cellulare e dalla musica registrata, inseguito dai fantasmi del suo passato e da un’esistenza senza prospettive. La sua vita, tipica di tanti giovani che già dall’adolescenza sembrano non avere sbocchi, trascorre in un mondo dove il successo e la carriera sono l’unica misura, e dove i sentimenti vanno occultati.
Vedevo davanti a me un giovane che di fronte alle scelte dei propri genitori, all’ingiustizia sociale all’isolamento, preferiva barricarsi dietro la stravaganza, il cinismo, la maschera e l’acciaio.
Il giovane mi appariva in scena come un puledro di pochi giorni ancora incapace di reggersi in piedi.
Poi, mentre vedevo crescere l’attore, il giovane uomo e la motivazione che lo spingeva a fare questo spettacolo, mi chiedevo cosa io – come regista – inseguissi. Cosa mi interessava di questo lavoro – oltre al ruolo di stimolo per l’attore e tessitrice si significati, scene e testi che ano dopo anno vedevo e rielaboravo?
Dal dialogo con i fantasmi che abitano i quartieri della città interiore è emersa la figura di Amleto, il giovane che si pone domande. In questo momento ho letto Una storia in Danimarca di John Updike, in cui la vicenda del principe di Danimarca è esposta dal punto di vista di Gertrude, la madre.
Gertrude lasciava il ruolo della donna sconsiderata che sposa l’assassino del marito e re buono, per raccontare il proprio destino di donna che ha obbedito al padre sposando un uomo per ragioni di stato, che ha un figlio a cui si sente legata solo dal dovere, che si innamora del prorpio cognato, che cerca di resistere a questo amore e che sciegliendolo si sente colpevole.
Una storia in Danimarca racconta una possibile versione dei fatti avvenuti prima che cominci il dramma di Shakespeare. In Il figlio di Gertrude vorrei presentare una possibile versine di quello che avviene dopo, se la storia avvenisseoggi e senza la morte finale dei personaggi. Nonostante i riferimenti alla Danimarca e ai personaggi che ruotano attorno ad Amleto Il figlio di Gertrude è una storia di Napoli. Siamo nel sud dell’Italia, in una parte del mondo in cui si parla e si canta il dialetto, i fiori sono di plastica, le finestre di alluminio, le luci al neon e la violenza quotidiana. Siamo nella città che esibisce un’identità che già sa di aver perso, in una realtà che offre ai giovani disoccupazione o emigrazione, e la scelta di esprimersi attraverso la protesta esasperata, il tifo per la squadra di pallone o il coltello a serramanico..
Nel corso delle prove ho scoperto che ancora una volta, nonostante lavori con un attore maschile, sono le tematiche femminili ad interessarmi. Dove sceglie di andare una donna – per cui, come milioni di altre donne, sono le relazioni d’amore ad occupare il centro della propria vita – quando diventa consapevole di essere sola, cioè indipendente e libera da responsabilità? Dove va Gertrude, quando non è nè figlia, nè sposa, nè madre, nè amante, ma solo lei? Ancora non lo so. Solo vedo che rifiuta la finzione a cui si era sottomessa ed esce di scena.
RASSEGNA STAMPA
Franco Quadri, La Repubblica
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…nasce dall’attrazione degli opposti lo spettacolo-performance il figlio di Gertrude. Da una parte Lorenzo Gleijeses, giovane attore napoletano, dall’altra a dirigerlo Julia Varley, storica attrice dell’Odin Teatret. L’allievo parte da Totò e Pino Daniele, evoca Maradona, esprime la vitalità del Sud. Cercando quindi un punto d’incontro nella figura di Amleto, lui ci arriva attraverso la napoletaneità di Leo, Moscato, Ruccello. In un suggestivo deposito di oggetti scenici dal segno geometrico, Lorenzo parte dalla manifestazione istintiva di se stesso ma non smette di reinventarsi: il pazzariello rivela un attore che gli fa il verso, cerca un’identità attraverso una gamma di gesti e stati d’animo, danza con le mani, arrovescia gli occhi, si cerca fra le suggestioni cangianti dei suoni, insegue un personaggio e una madre”
Il Figlio di Gertrude, una storia di Napoli
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… nessuno si era prefissato il compito di fare di Amleto l’eroe straziato e, al tempo stesso divertito, di un assolo virtuosistico in cui le più accreditate interpretazioni del personaggio confluiscono nell’ambito di una prova d’attore concepita come dimostrazione assoluta di tutte le virtualità dell’eroe. Julia Varley ha lavorato magistralmente sul tessuto fonetico e la prestanza fisica di un attore inedito: Lorenzo Gleijeses….. Gleijeses infine insinua, da piccolo maestro dell’immaginario, il sospetto che a creare la tragedia sia stato un bambino che ad ogni costo non vuole evadere dalla stanza dei giochi”
Enrico Groppali, Il Giornale
Fra Napoli e Copenaghen l'Amleto di Gleijeses Jr.
A vederlo fuori dalla scena dove si scatena in tammuriate da pazzariello e tormentate performance di sapore grotwskiano, Lorenzo Gleijeses sembra un altro: un adolescente fragile che dimostra meno dei suoi 23 anni, e cerca ancora di sapere cosa farà nella vita. Eppure di strada ne ha percorsa dall’esordio in un teatro di repertorio con il padre Geppy Gleijeses ed altri registi di nome, fino alla scelta di ripartire da zero studiando con maestri come Lindsay Kemp, Nekrosius e il cultore della biomeccanica russa Nikolai Karpov. Fino a questo Il figlio di Gertrude partorito dopo una lunga gestazione in giro per il mondo sotto la guida di Julia Varley, membro storico dell’Odin Teatret e compagna di Eugenio Barba, che assembla intorno all’archetipo del giovane Amleto, principe dei dubbi, autori più diversi. Lasciando un ponte tra Napoli e Copenaghen percorribile in molte direzioni, un riepilogo, in fondo, del suo apprendistato e dei suoi dubbi.
Nico Garrone, la Repubblica
Lorenzo Gleijeses al CRT
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…il giovane Lorenzo Gleijeses evidentemente mosso da un’inquieta vena di ricerca personale che lo ha spinto, in questi anni, a confrontarsi con le figure più diverse di maestri della scena da Nekrosius a Lindsay Kemp a Yoshi Oida. Da tempo fra i suoi incontri decisivi c’è quello con l’Odin Teatret di Eugenio Barba. Questo Amleto che si sogna più attore che aspirante principe si lascia andare ad assemblare i più svariati autori, da Enzo Moscato ad Heiner Muller passando persino per Cechov. Gleijeses, che su questi materiali ha lavorato a lungo, ce la mette tutta, recita, canta, danza, passa dalla lingua al dialetto, si misura con una serie di gelidi oggetti metallici: si vede che ci crede fino in fondo”
Renato Palazzi, Del Teatro
La tenera ambizione di Lorenzo Gleijeses
“VIAGGIO intorno alla proprie radici e alla ricerca delle ragioni del fare teatro” ambizioso e tenero percorso che Lorenzo Gleijeses propone alla Galleria Toledo per la regia di Julia Varley, prestigioso nome del teatro internazionale in coppia stavolta con un “emergente di talento”. Ne “Il figlio di Gertrude” Gleijeses lavora su dispari fonti, mettendo insieme l’emozione di un “pazzariello” con quella di un giovane, disperato Amleto, Da Shakespeare a Muller, Moscato, Ruccello, Updike, per un percorso non lineare, imperfetto e seducente, carico di tensione e di energia, appassionato e impreciso nella sua definizione immaginaria, in cui fantasmi e concrete presenze della memoria s’intersecano e si danno il cambio in una costruzione di fisicità ed astrazione. Giulio Baffi, La Repubblica
Amleto si è fermato a Napoli. E incontra Totò e Pino Daniele
Non era prevedibile che si incontrassero, figuriamoci che lavorassero assieme, che lei diventasse la maestra di lui, che insieme condividessero la “voglia di stare in scena” vivi credibili e avvincenti per il pubblico. Da una parte Julia Varley, attrice del Odin Teatre di Eugenio Barba, il riferimento più prestigiose e importante per diverse generazioni di teatro di ricerca in tutto il mondo, dall’altra Lorenzo Gleijeses, che è un figlio d’arte (suo padre è l’attore Geppy), che è cresciuto ammirando Regina Bianchi, studi nel teatro di tradizione: due “mondi” teatrali distanti, inavvicinabili, indifferenti l’uno all’altro che invece hanno collaborato, lavorato assieme e il risultato è il figlio di Gertrude – Una storia di Napoli, ins cena al Crt-Salona da stasera, una piccola importante curiosità teatrale con Lorenzo attore e Julia regista. “Ero a Napoli durante una tournèe dell’Odin a Galleria Toledo nel 2002 e Lorenzo partecipava a un mio seminario di tecnica vocale – racconta Julia Varley del Messico dove è in tournèe con l’Odin – Ricordo che aveva difficoltà a memorizzare e ripetere con precisione una scena. Ma era uno che non rinunciava. Anzi, alla fine mi chiese di continuare a lavorare con me. Gli risposi che l’unica possibilità era che mi inseguisse. E da quel momento Lorenzo mi ha inseguita ovunque. Io gli ho dedicato il tempo libero, spesso le mie vacanze”. Lo spettacolo è stato realizzato in tre anni di incontri tra voi, con la partecipazione di altri artisti dell’Odin, Jan Ferslev per le musiche, Augusto Omolù per i movimenti. Che strana cosa è? “E’ difficile riassumere un processo così lungo. Siamo partiti dal lavoro di attore, da cose basilari come la sincronizzazione delle azioni fisiche con quelle vocali, dal dare radici al corpo di Lorenzo che agiva in scena, Lorenzo di suo mi proponeva testi in napoletano di Ruccello e Moscato. A poco a poco, si è costruita una partitura di movimenti, di musiche e anche di parole. Come siete arrivati a raccontare la storia di Amleto visto dalla mamma? “Il tema della pazzia c’era già in uno dei testi di Ruccello. Dalla pazzia siamo arrivati alla ribellione tipica dei giovani, dunque ad Amleto e con lui ad Ofelia. In più in quel periodo leggevo “Una storia in Danimarca” di John Updike in cui Gertrude non è presentata come traditrice e adultera ma come figlia, madre e sposa che cerca di evadere da una realtà che la soffoca. Mi piaceva, mi pareva il modo giusto di capovolgere la tematica dello spettacolo riportandolo al femminile: Lorenzo, il figlio, si dibatte per tutto lo spettacolo ma alla fine, tra le macerie la madre, si alza e se ne va”. E Napoli che c’entra? La storia è quella di un ragazzo di Napoli di oggi, orfano di padre e in conflitto con la madre, che vorrebbe incontrare il fantasma del padre, che cerca e rifugge amore, che non sa scegliere tra Totò e Pino Daniele, tra il coltello, il calcio o il reggae per dar forma alla sua ribellione”. Quanto c’è di Lei e dell’Odin in questo spettacolo? Il rumore dei passi della madre che esce di scena esprimono una mia domanda: dove va e cosa diventa una donna quanto non è più figlia madre sposa? Considera questo Figlio di Gertrude un suo figlio? “E’ uno dei risultati dei miei giorni liberi che ha cominciato a camminare con le gambe proprie”.
Anna Bandettini, La Repubblica
Amleto si è fermato a Napoli
E’ un bel lavoro quello che Lorenzo Glejieses ha portato al Crt-Salone in questi giorni. Il figlio di Gertrude-Una storia di Napoli è nato tanto per cominciare da un lavoro sull’attore che Lorenzo, figlio d’arte (suo padre è l’attore Geppy), cresciuto idealmente nel teatro di tradizione, ha condotto con Julia Varley, attrice storica dell’ Odin Teatret, il gruppo guidato da Eugenio Barba, che più ha inciso nel teatro di ricerca e sperimentazione. L’insolito connubio ha dato vita a uno spettacolo sincero che parte da Napoli, da Totò e Pino Daniele, e arriva a Amleto con un pizzico di Leo De Berardinis e molto sapore di Ruccello e Moscato. Intrecciando Shakespeare con Updike, Lorenzo Glejieses si mette in scena con sincerità umana e d’attore, mostrando allo spettatore la sua ricerca di identità espressiva. Bella prova di un attore che la sua identità l’ha già catturata.
Giuditta Lamite, La Repubblica
Ponte fra Napoli e Copenhagen: Lorenzo Gleijeses al Crt: 'Il figlio di Gertrude' Amleto in stile nordico
Il giovanissimo figlio di Geppy debutta al Crt nel Figlio di Gertrude, un Amleto cresciuto alla scuola dell’Odin. A ventitrè anni appena compiuti. Lorenzo Gleijeses, figlio del famoso Geppy, si discosta in modo clamoroso dalle orme paterne. Pur ammirando il pater familias, idolo delle platee di mezza italia, Gleijeses Junior che pure ha militato sotto l’amorosa sferza del genitore, ha intrapreso una strada diversa, alternando al teatro di tradizione il difficile percorso iniziatici dell’Odin Teatret di Eugenio Barba. Biondissimo e longilineo come il più acceso di pulcinella ma con, negli occhi, il lampo ironico e perentorio dei De Liguoro (la principesca famiglia materna) Lorenzo, che sbarca al Crt in una singolare rilettura di tutti gli Amleti possibili intitolata Il figlio di Gertrude, vuole d’ora in poi mutare, tra Napoli e Copenhagen, il più inatteso e stimolante dei “ponti culturali” possibili. Come è nata la consonanza con l’universo poetico di Barba? “Dalla mia insofferenza a isolarmi in uno schema precostituito Perché se è vero che sono giovane, è altrettanto vero che mio padre mi ha spinto sul palcoscenico a dieci anni nel ruolo di uno dei figli di Liolà”. Un esordio da figlio d’arte in piena regola, quindi… “Che mi ha insegnato tanto, non lo nego, ma ha sviluppato in me, alla lunga, una serie di interrogativi senza risposta”. Quali? “Per esempio, la domanda fondamentale che ogni essere umano si pone non appena si aziona, alla fine dell’infanzia, il meccanismo della ragione. “Cosa ci sto a fare nel teatro del mondo?” mi sono chiesto. “In un paese dove un interprete si misura tutta la vita col muro invalicabile di un copione…Possibile non si possa aggirare l’ostacolo?”. Ero alla ricerca di quello che Freud chiama “lo scandaglio dell’identità perduta”. E allora? “Ho rifiutato le fiction televisive, e ho cercato programmaticamente la diversità, abbracciando il rifiuto della maniera. Dapprima con Lindsay Kemp che mi ha fatto comprendere la fluidità dei movimenti corporei, poi con Nekrosius e infine con Nikolai Karpov che mi ha voluto nel ruolo di Romeo in un personalissimo adattamento della favola di Shakespeare dove la storia d’amore dei due adolescenti era calata in una terra di nessuno simile ai deserti di Beckett” E l’Odin? “L’Odin è arrivato per caso nella persona di Julia Varley, la mitica attrice, compagna di Eugenio Barba. Quando giunse a Napoli per un seminario, m’infiltrai nella sua compagnia e subito, con una faccia tosta di cui ancor oggi mi stupisco, la implorai di prendermi sotto la sua ala”. E così è nato Il figlio di Gertrude. “Già. Un Amleto dove Ruccello e Moscato incontrano Heiner Muller e John Updike, dove Amleto si muove come un adepto dei riti brasiliani del candomblè a Salvador de Bahia e dialoga con gli oggetti d’uso più umili come se fossero i simboli del Dio che abita in noi prima che veniamo concepiti alla luce del sole”.
Enrico Groppali, Il Giornale
I riconoscimenti per il teatro: Premi Ubu Napoli protagonista
Napoli salvata dal teatro? Arturo Cirillo, regista-attore rivelazione di questi anni, ne fa una questione di utopia. Il palcoscenico come bisogno di fuga di una città dalle sue mille emergenze. “Perché – spiega – è innegabile che nei momenti più difficili e duri la creatività non si tira indietro, anzi”. Lorenzo Gleijeses, attore figlio d’arte che ha scelto di tornare a vivere a Napoli due anni fa, la butta su Nietzsche. Ciò che non ci uccide ci rende più forti. “Chi ce la fa a Napoli è bravo due volte. Qui mancano gli spazi, i soldi, difficilmente trovi qualcuno disposto a darti retta, come nelle altre città teatrali italiane. Solo se hai davvero qualcosa da dire alla fine la spunti”. Sia Cirillo che Gleijeses, ieri sera al piccolo di Milano, hanno ricevuto il prestigioso Premio Ubu per il Teatro. Cirillo, che già in passato è stato premiato come regista, ha portato a casa il riconoscimento come miglior attore non protagonista, per Le intellettuali di Molière (di cui ha firmato anche la regia). Nel giovane Gleijeses, reduce dalla scrittura e dall’interpretazione del “Figlio di Gertrude”, con la regia di Julia Varley dell’Odin Teatret (e presto al Mercadante con un nuovo progetto), i giurati del più importante premio teatrale italiano hanno visto invece un “nuovo attore” della generazione under 30. Gleijeses ha diviso il premio, ex aequo, con altri due coetanei: il napoletano Raffaele Esposito, in compagnia con Luca Ronconi (Il Ventaglio, Peccato che fosse puttana), e Alessandro Argnani, reduce da diverse esperienze teatrali con Marco Martinelli del Teatro delle Albe di Ravenna. A glorificare la nuova scena teatrale napoletana è stato, però, soprattutto un terzo riconoscimento: Il premio speciale Ubu ad Arrevuoto Scampia-Napoli, progetto del neo direttore del Mercadante, Roberta Carlotto, spettacolo-laboratorio affidato ai ragazzi delle scuole superiori (tra cui quelli di Secondigliano) diretti di Martinelli, che ha anche riportato alla riapertura dell’auditorium di Scampia. “I premi – ammette Cirillo, in questo momento in tournée con “Le intellettuali” e che a giugno debutterà con la regia del “Don Fausto” di Pepito – fanno sempre piacere. Per l’Ubu parla una lunga storia, una giuria formata da critici teatrali di tutta Italia e la lungimiranza nel non trascurare le realtà giovanili del nostro teatro. Nel mio caso, il premio come attore “non protagonista” e più che giusto. Le intellettuali è un lavoro di gruppo, un eccellente gruppo di attori, come dimostra la nomination come migliore attrice non protagonista per Monica Piseddu”. Il fatto che siano stati premiate diverse realtà napoletane? “Come ho già detto la creatività può nascere dalle difficoltà, ma Napoli è anche una città che ha una tradizione teatrale immensa e dove il teatro ha sempre avuto un forte senso collettivo. E poi il dialetto. Forse il più teatrale del nostro paese”. Oltre ad Arrevuoto, definito “evento dell’anno”, altri premi speciali sono andati al progetto Domani di Ronconi e Walter Le Molì, alla Biennale Teatro 2005, diretta da Romeo Castellucci, e al Teatrino Giullare. Gli Uccelli di Aristofane ha portato a casa il premio come spettacolo dell’anno e la miglior regia (Federico Tiezzi). Luigi lo Cascio e Maria Paiato, entrambi in Il silenzio dei comunisti, hanno vinto come miglior attore e miglior attrice.
Eugenio Spagnolo, Il Mattino
Lorenzo Gleijeses interpreta i 20 anni di un Amleto napoletano
Interessante debutto a Galleria Toledo per Lorenzo Gleijeses con “Il figlio di Gertrude” per la regia Julia Varley, attrice storica dell’Odin Teatret i testi con cui si rapporta il giovane protagonista sono quelli dell’Amleto di Shakespeare, Hamletmachine di Heiner Muller, Mal d’Hamlè di Enzo Moscato e Mamma, piccole tragedie minimali di Annibale Ruccello, che vengono ingegnosamente utilizzati per raccontare una storia personale, anzi un particolare percorso umano. Il viaggio di cui ci rendono partecipi Gleijeses e Varley è quello che si vive attraverso i flussi di conoscenza, ricordi, sogni, rancori di un giovane del nostro tempo e della nostra terra (malgrado il riferimento alla Danimarca di Amleto), fino a raggiungere, dopo una ricerca affannosa, le radici più profonde e viscerali. Cosa significa avere vent’anni e vivere a Napoli oggi? Si ascolta musica registrata, si tifa per la squadra del cuore, si gioca con il cellulare, e. tra le canzoni rock e quelle dialettali del primo Pino Daniele, ci si pone mille domande, si fanno i conti prima con i fantasmi del passato e dopo con le incertezze di un futuro indecifrabile. I genitori non hanno più maschere di autorevolezza dietro cui si nascondevano madri e padri decine di anni fa. Ed è così che scelte sbagliate e decisione forzate si riverberano ineluttabilmente sui rispettivi figli. Il Protagonista dialoga con un padre morto che disperatamente cerca di raggiungere su una sorta di razzo improvvisato: e se un attimo prima provava con orgoglio a mostrare la sua propria identità, quando poi appare la luce che lo lega simbolicamente al padre, si legge nei suoi occhi l’idealizzazione di un fantasma, di un essere che non ci sarà più. E ci si domanda se non sia poi la distruzione di questo fantasma a permettergli finalmente di crescere. Sulla “terra”, rimane una madre che non ha mai affrontato in modo maturo la maternità, vedendola come una “scelta d’altri”, e ora è accusata per il desiderio di rifarsi una vita. Padre e Madre sono l’uno un fascio di luce, l’altra una mera voce, mentre la fidanzata Ofelia “esiste”, c’è sul palco, ma non è altro che un attrezzo metallico, senza apparente identità. Il giovane Amleto la deride, non può mostrarle i suoi sentimenti, la tiene così a distanza in modo tale da non doversi sentire ingabbiato anche da lei. E’ una storia di profonda solitudine quella raccontata da Gleijeses, non una tragica solitudine, ma quelle con cui ormai ognuno, in particolar modo i figli del nostro tempo, si deve necessariamente confrontare. Si è soli in famiglia, si è soli nei sentimenti e si è soli nella società, ed ecco che quando qualcuno a questo meccanismo non ci sta più, è additato come “pazzariello” come quello di Totò, o come “o” pazz” di Pino Daniele, contro l’ordine prestabilito. Applausi meritati a Lorenzo Gleijeses, più che convincente anche a livello interpretativo, gestendo in modo disinvolto il palco in cui è l’unico protagonista, offrendo molta fisicità al suo personaggio. Sfruttando le capacità gestuali e mimiche, riesce anche in uno sguardo a trasmettere mille stati d’animoin modo a volte violento e tragico, altre volte più sofferto e poetico.
Fiorella Taddeo, Napolipiù
Un viaggio nel profondo, alla ricerca del teatro
Napoli – Emozioni e sensazioni profonde alla Galleria Toledo per la prima dello spettacolo “Il figlio di Gertrude” interpretato da Lorenzo Gleijeses su regia della storia attrice dell’Odin Teatret di Danimarca, Jiulia Varley. Frutto di un personale ed interessante percorso di ricerca, il lavoro proposto dal giovane attore proveniente dalla struttura artistica danese, nel coinvolgere personaggi come Eugenio Barba, ed ancora Jan Ferslev per le musiche, Augusto Omolù per la danza, Fausto Pro per il disegno luci, e la stessa Varley per la regia, utilizza in una sorta di excursus poetico dell’anima alcuni estratti da Amleto di Shakespeare, Hamletmachine di Muller, Mal d’Hamlè di Moscato, Mamma, piccole tragedie minimali di Ruccello, ai quali vanno aggiunti alcuni brani tratti da Una storia in Danimarca di Updike. Ponendo come fulcro del suo tortuoso spettacolo – ricerca la Danimarca e Napoli, Lorenzo Gleijeses s’inoltra nei più svariati sentieri culturali e linguistici della scena nonostante i riferimenti giungono sui Shekespeariani territori, il tutto rimane con delle continue incursioni spirituali negli universi di Totò, Carosone, Daniele, sostanzialmente di partenopea radice. “Un giovane dialoga da solo con le persone che hanno significato qualcosa nella sua vita. Il padre è morto. Il suo ricordo è un fantasma idealizzato da raggiungere o l’immagine da annientare per poter finalmente crescere. La madre vedova è accusata di volersi rifare una vita. La donna amata è derisa per poterla tenere a distanza. L’amico è da piangere come un altro morto”. Cercando di liberare la sua anima e lasciandola fuoriuscire dalle sembianze corporali da Pazzariello, il protagonista della psicologica vicenda attraverso le canzoni della sua terra e lo spirito incontaminato di una mente che cerca disperatamente di rimanere libera e ricongiungere con una smarrita innocenza, percorre i più disperati momenti di sofferenza del genere umano. Con riferimenti alla mitologia ed alla responsabilità di Atlante condannato a portare sulle spalle per l’eternità il peso della volta del cielo ed ancora con precise allusioni alle mistiche sofferenze di Gesù nella sua via crucis, l’attore Gleijeses punta deciso, dopo aver affrontato il genio della drammaturgia inglese, sugli autori che lo riconducono alle origini come Moscato ed il suo Mal d’Hamlè e come Annibale Ruccello e le sue piccole tragedie minimali. Inondando il tutto di musica, ai brani tragici collegati alla fine del corpo come materia, l’autore aggiunge, come in una sorta di provocatorio mix per la mente, le canzoni che furono di Gegè Di Giacomo con il suo “canta Napoli” e quelle sociali di Pino Daniele. Con una lunga ed introspettiva carrellata di monologhi, movimenti corporei, allegorie sceniche e continue richiami alla più profonda tradizione partenopea, “Il figlio di Gertrude” lascia riflettere, sperare e sognare. Per tutti uno spettacolo da analizzare a fondo ed un momento di teatro nuovo e significativo dai mille risvolti umani.
Giuseppe Giorgio, Cronache di Napoli
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