L’Esausto o il Profondo Azzurro di Lorenzo Gleijeses, che ho potuto seguire in qualche prova e visto finito almeno quattro volte, tutte soddisfacenti, perché non si smette di coglierne doppi fondi e significati reconditi al di là di una bellezza che sùbito colpisce, ma che permette di scoprirne la quantità di interpretazioni possibili.
Franco Quadri, La Repubblica (venerdì 12 dicembre 2008)
Con pochissimi oggetti, in una scena vuota, “lo spazio si fa tempo”: i settanta minuti di spettacolo sono tutti da guardare e pure da sentire… Pubblico giovanissimo e grande successo.
Franco Quadri, La Repubblica (lunedì 2 giugno 2008)
L’Esausto di Gleijeses: che invenzione il Beckett gestuale da non perdere.
Ugo Ronfani, Il Giorno
Così Beckett danza con Gleijeses.
Magda Poli, Il Corriere della Sera
Personaggi che si confrontano ora muti, ora sostenuti da un flusso di parole, ora avvinghiati in un abbraccio difficile da districare, ora impegnati in una danza dai movimenti spezzati, fatta di attrazione e di repulsione. In questo spettacolo, fonte dell’ispirazione di Lorenzo Gleijeses, che ne è l’ideatore e interprete, con Manolo Muoio, è dunque il mondo visto con gli occhi di Beckett, ma letto con libertà espressiva… E’ sulle spalle di Gleijeses e Muoio che poggia il peso di questo spettacolo sorprendente.
Mariagrazia Gregori, Del Teatro (sito web)
Una rivisitazione dell’avanguardia teatrale, che non rinuncia nel teatro né all’uso dell’immagine né all’uso della parola, ma subordinano entrambe al rigore del concetto. Notevole conclusione della stagione teatrale del Mercadante Stabile di Napoli.
Renato Nicolini, L’Unità
L’esausto è un vero e proprio personaggio, è unn uomo che cade continuamente in terra, che alla lettera non si regge in piedi. Egli compie sforzi sovraumani o, forse, semplicemente umani, tutti gli sforzi che compiono tutti quelli che cadono, gli sforzi per acquistare la propria dignità…. L’esausto e la sua ombra, essi sono insebarabili, sono uno e due, o due e uno. Si intrecciano, si sostengono, esplodono in un ilare scoppio di vitalità, cominciano a saltare, poi di nuovo cadono. E’ suggestiva l’immagine finale, quando l’esausto si specchia e il suo corpo si riflette dapprima su fondo chiaro, poi su fondo scuro, facendosi chiaro esso stesso. Vi è in questo spettacolo un innegabile ordine, vi è una continuità stilistica, una coerenza.
Franco Cordelli, Corriere della Sera
L’esausto o il profondo azzurro, microcoreografie poetiche con flussi verbali e posture facenti capo a uno studio del suicidio o, meglio, del non essere, arrivandovi per stanchezza e insensatezza, per smorfia.
Rodolfo Di Giammarco, La Repubblica
Pensa in grande il giovane Gleijeses…Gleijeses fa sue alcune direzioni già dell’Odin immaginando un testo che al fisico concede molto, ma dimostrando una sicurezza drammaturgia che fa davvero ben sperare…La presenza scenica di Gleijeses è carisma che non si compra…. In certe micro-coreografie omogenee alla recitazione, la forza poetica si amplifica esponenzialmente, la bellezza a farsi concetto totale. Di mente e corpo. E ci si emoziona.
Diego Vincenti, Hystrio
Ciò che la voce non è in grado di restituire viene reso dalla straodinaria fisicità dei due interpreti, funamboli del movimento in grado di condurre l’espressività del loro corpo ai limiti estremi.
Fabio Magi, www.teatroteatro.it
di Lorenzo Gleijeses
Si è detto analizzando l’Opera di Samuel Beckett che Hamm e Clov sono Vladimiro ed Estragone in età avanzata e che essi fuggono da sé stessi esattamente allo stesso modo in cui OG (personaggio interpretato da Buster Keaton in Film di S. Beckett), scappa dalla percezione del suo essere in una situazione di completo distacco dalla società civile. E’ stato scritto che la situazione finale di Film è quella iniziale di Dì Joe, e ancora che Atto senza parole ritrae la condizione di Clov nella sua cucina tre metri per tre, mentre fissa il muro ed attende i fischi di Hamm, e che le caratteristiche dei due personaggi principali di Finale di partita e le dinamiche relazionali che intercorrono tra di loro sono molto vicine a quelle che caratterizzano Lucky e Pozzo di Aspettando Godot.
In Testi per nulla Beckett cita i nomi dei personaggi del suo teatro e dei suoi romanzi.
La sua Opera sembra un enorme groviglio in cui i personaggi, le situazioni, i temi, le piéce si intrecciano tra loro tendendo così a completarsi; la sua produzione letteraria mi appare come una spirale attraversata da echi che percorrono i suoi scritti e si rimandano da opera in opera, rimbalzando dalle sue poesie alle piéce teatrali, dai suoi romanzi alla prosa:
“Mai altro che un solo argomento” (Un pezzo di monologo).
“Le immagini ritornello corrono attraverso i libri di Beckett” (L’esausto, Gilles Deleuze).
Nello spettacolo L’Esausto o il profondo azzurro, volevo esplorare questo “universo” di Beckett senza doverne per forza mettere in scena un testo unico, né dovendo usare unicamente le sue parole. Le sue immagini mi bastano.
La mia attenzione è stata attratta soprattutto dalla produzione finale dell’autore irlandese, in cui il delirio dell’isolamento causa una proliferazione di invenzioni mentali: immagini, voci, presenze, ricordi. “L’evocazione è funzionale al superamento di una situazione colma di tensione: l’approssimarsi della fine” (da Il medium e il fantasma; radio, film, video di L. Mucci).
Nella scrittura di Beckett vedo dileguarsi il confine che separa il soggetto dall’ esterno e “le situazioni dell’interiorità diventano contemporaneamente situazioni della natura fisica” (Capire finale di partita, T.W. Adorno), così la mia aspirazione era che lo spazio scenico diventasse spazio dell’interiorità, ma, allo stesso tempo, rappresentazione di un semplice interno: la stanza dell’esausto: “….al centro di quell’interno senza mobili che rappresenta il mondo intero non meno dello spazio interiore della sua stessa soggettività”(ancora Adorno).
“È come l’immagine deve accedere all’indeterminato, pur restando completamente determinata, così pure lo spazio deve essere sempre uno spazio qualunque, disertato e deserto, pur essendo geometricamente determinato” (L’esausto di Deleuze).
Queste sono alcune delle idee che hanno portato alla nascita de L’esausto o il profondo azzurro al cui centro ci vivono l’esausto e la sua ombra che sono, come Vladimiro ed Estragone (da giovani?), parte dello stesso ego (“Il signor Alberto?”): percepisco nelle figure che Manolo Muoio ed io presentiamo in scena lo stesso annullamento di identità, e la stessa dissociazione dell’unità di coscienza in elementi diversi che caratterizza molti dei personaggi di Beckett.
Il mio esausto si muove percorrendo lo spazio con ritornelli motori inseguito ed inseguendo la sua ombra: ombra intesa non solo come sagoma buia che lo segue, ma anche come bagaglio di ricordi, immagini, voci, che ogni essere umano porta con sé. Ombra come Altro, come personificazione interiore di quel bagaglio di ricordi e di pensieri.
“L’altro e io sono lo stesso personaggio” (L’esausto di Deleuze).
La realtà oggettiva altrui divenuta soggettiva nel sé, il passato ed i ricordi divengono presenza tangibile, materiale, apparizione teatrale: “Il mio passato mi ha buttato fuori, i suoi cancelli si sono aperti o sono evaso io” (Testi per nulla).
Nella mia lettura dello spettacolo l’ombra costituisce il termine principale nel discorso interiore, continuamente attivo nel determinare ciò che l’esausto pensa, compie, attua; è l’interlocutore principale con cui l’ego dialoga traendo da esso il proprio orientamento o dis-orientamento.
L’ombra nello spettacolo è per me una sorta di grillo parlante, di censore, una struttura organizzata percepita nella coscienza a mo’ di voce,di presenza, di memoria operante dell’esausto.
Ho sentito spesso parlare dell’astrazione che caratterizza l’Opera di Beckett. Io in essa vedo grande concretezza. Adorno dice che i personaggi ed i prototipi di Beckett sono storici nel senso che “egli presenta come elemento umano tipico solo le deformazioni recate agli uomini dalla forma della loro società”. Così se i protagonisti di Finale di partita sono dei “superstiti della guerra mondiale”, se “Willie e Winnie (Giorni felici) sono vittime di un panico tecnologico, di immagini radicate nell’incubo dei missili V-2” ( L’estetica del disfacimento di S.E. Gontarski), l’esausto e la sua ombra sono figli di un’era post-moderna in cui tutto è superfluo, persino la comunicazione… talmente superflua da non riuscire più a reperirne le chiavi e le necessità: figli di un’epoca e di una società di individui monologanti, in cui aprirsi all’altro, al giovane, al disoccupato, al diverso, allo straniero è superfluo. L’isolamento diviene volontario, una sorta di Arcadia in cui sfuggire dalle difficoltà ed agli orrori giornalieri.
Perché un giovane nemmeno trentenne come me vuole mettere in scena dei personaggi così vecchi e rassegnati? Forse perché sento che chi conduce i giochi, chi ci dice oggi come vivere, i nostri uomini di potere reputano del tutto non necessario ascoltarmi e aprirsi a me giovane, a me in quanto altro, portatore di idee e valori diversi dai loro.
Questo mi dà un senso di impotenza che ritrovo nei personaggi di Beckett. Scopro in me una impotenza molto simile alla loro e sento che questo avere le mani legate si traduce in una tendenza a chiudermi in me stesso e ad isolarmi: posso parlare quanto voglio, ma non vedo persone interessate a ciò che dico, né le mie parole cambiano qualcosa…
Le colpe dei padri ricadono sui figli: inizio a sentirmi e ad essere anche io un individuo monologante, anche per me la comunicazione inizia a sembrare qualcosa di inutile…
Vedo di fronte a me una società di migliaia di Lucky giovani ma già invecchiati, tutti uguali, tutti al guinzaglio, tutti pronti per essere svenduti al mercato, oramai sfruttati negli anfratti più reconditi del proprio essere, nutriti dagli ossicini scartati dal vecchio e potente Pozzo.
Clov: “…Sono talmente curvo che vedo solo i miei piedi, se apro gli occhi, e tra le gambe un po’ di polvere nerastra. Mi dico che la terra si è spenta benché io non l’abbia mai vista accesa.”
(da Finale di Partita di S. Beckett)
di Manolo Muoio
Sperimentare prevede una fuga, è essenziale sviluppare una cura, nutrire un formidabile abbandono. Si prova a dire che cosa è e “si è già su di esso, trascinandosi come un pidocchioso, brancolando come un cieco e correndo come un pazzo, viaggiatore del deserto e nomade della steppa”. Agire la scena è un esercizio, una sperimentazione inevitabile. Non si tratta di stabilire nozioni, di elaborare concetti: è piuttosto un comportamento, un esperire, una serie di pratiche.
Non è un traguardo e non c’è un risultato da raggiungere, tuttavia non si finisce mai di accedervi, è propriamente un confine, un limite: “né individuo, né specie, che cosè l’anomalo? è un fenomeno, ma un fenomeno dei bordi.”
E’ la percezione del nostro corpo vivo. Si tratta di una sperimentazione che non è solo artistica, ma anche culturale, biologica, politica e può attirare su di sé sospetto, censura, repressione. Se la possibilità di trasformarsi risiede sempre nell’essenza di tutte le cose, allora bisogna incontrare e approfondire il luogo, lo spazio nel quale la trasformazione di qualcosa in altro diventa effettivamente possibile. E’ necessario de-centralizzare lo sguardo, modificare l’attitudine ad esso. Dare vita a una visione trasversale, per creare una traiettoria obliqua, generare un’immagine proteiforme di ciò che già ci sembra di conoscere, ma che in realtà ancora dobbiamo (ri)scoprire..
“Tutto quello che posso dirti è che noi siamo fluidi, esseri luminosi fatti di fibre.”
Tra il frutto della sperimentazione e ciò che si vuole creare c’è una relazione molto sottile: in partenza qualcosa sarà prodotto in un determinato modo, ma non se ne conosce l’esito, in seguito analisi infinita, che comprende in sé il prodotto, a costo di una teoria infinita di percorsi, di lacerazioni, di scarti. Sperimentazione assai minuziosa, a patto che non ci sia persistenza nei modi, ma slittamento costante del tipo.
Bisogna evitare quello che ci blocca o invece “amare, onorare e servire il demente ogni volta che sale alla superficie”?
Ad ogni modo individuare sempre ciò che accade o non accade, ciò che fa passare e ciò che impedisce di passare. Le sensazioni sono i paesaggi, le immagini, le modalità del corpo nello spazio d’azione. Spazio d’azione che deve essere continuamente reinventato: non è una scena, un luogo e neppure un supporto per far accadere qualcosa.
E’ teatro dell’inesplicabile, risonanza di ciò che non si può ancora dire, epifania dell’osceno (nel senso etimologico di ciò che resta fuori dalla scena), di quello che rimane nascosto, catturato fra le pieghe, e proprio per questo assume un’evidenza esiziale, quasi dolorosa: una delicata operazione archeologica, che conserva la pretesa di scandagliare lo spazio più intimo della realtà umana.. “Divenire impercettibile, aver disfatto l’amore per divenire capace d’amare. Aver dissolto il proprio io per essere finalmente solo, e incontrare il vero doppio all’altra estremità della linea. Passeggero clandestino di un viaggio immobile.”
L’esausto è pronto a ricominciare, un’altra volta, daccapo.
di Julia Varley
Pesci che nuotano in libertà
Sono nata nel 1954 ed ho vissuto in pieno il ’68. Per la mia generazione è stato semplice essere giovane e ribelle: respiravo nell’aria venti di cambiamento, necessità e ideali. Le generazioni venute dopo, a cui appartiene anche mio fratello Toby, hanno invece attuato rifiuti e proteste che spesso si sono rivoltate contro di loro. Oggi mi sembra che per i giovani sia ancora più difficile trovare un senso e una direzione. Leggo libri sul loro nichilismo: Dio è morto da decadi, ma poi anche la scienza, la rivoluzione e l’utopia. Nel mondo globalizzato della tecnologia e delle relazioni virtuali, qual è la strada che ci indica la storia?
Cammino per le strade di Napoli: spazzatura, piccoli negozi, un’infinità di persone, adolescenti accompagnati da cani e donne piegate in due che fanno l’elemosina, il traffico, i bar, allarmi che suonano, il Vesuvio, il mare e, appoggiata sull’orizzonte, l’isola di Capri. Faccio mezz’ora a passo veloce da casa a teatro per le prove dello spettacolo e intanto ripasso il testo di una mia dimostrazione di lavoro. Mi ascolto dire a bassa voce le parole della poesia di Octavio Paz “La strada”.
È una strada lunga e silenziosa
Cammino nel buio. Inciampo e cado.
Mi rialzo e calpesto con piedi ciechi
Le pietre mute e le foglie secche.
E c’è un altro dietro di me che le calpesta.
Se mi fermo, si ferma. Se corro, corre.
Guardo indietro: nessuno. Tutto è scuro e senza uscita.
Giro e rigiro per incroci che portano sempre alla strada
dove nessuno mi aspetta né mi segue.
Dove io seguo un uomo che cade
e si rialza e al vedermi dice: nessuno.
In Pakistan è appena stata uccisa Benhazir Butto. I titoli dei giornali parlano di Al Qaeda, di terrorismo, di immigrati ed emigrati, di stupri e guerra, di assassini insensati, di aumenti della luce e del gas, di politici che passano il loro tempo ad essere in disaccordo fra loro e a cercare di dimostrare chi è il peggiore. Mi chiedo come trasformare il tema dello spettacolo che sembra essere esistenziale ed intimista in una presa di posizione politica. Come posso dare alle frustrazioni personali una connotazione storica, come faccio a coinvolgere nel tema dell’altro non solo la precisazione dell’identità, ma il senso di una minaccia che viene da fuori, che ci fa chiudere le frontiere e le case in cerca di protezione e difesa del nostro apparente benessere.
Nella dimostrazione del “Fratello Morto” è bastata la frase di un’altra poesia di Nazim Hikmet: “Sei uscito di prigione…” per dare una connotazione all’altro che calpesta le foglie secche dietro di me e, attraverso l’impressione di insicurezza data dal sentirmi seguita, suscitare precise associazioni. E poi l’ultima poesia di Ahmet Arif: “Ti hanno fucilato, nessuna inchiesta, nessun giudizio.”
I grandi temi dei perseguitati politici, delle guerre civili, dell’ingiustizia si allontanano da me nelle immagini di sangue fotografato della televisione e nei titoli scandalistici dei giornali. È un mondo impazzito che sembra distante dalla realtà ricca e democratica che mi circonda da vicino. Eppure la pazzia che si esprime in mancanza di valori, ideali, cultura, speranza, solidarietà, amicizia, senso civico, legami e affetti, gioia, qualità di vita, è così prossima che mi attanaglia ogni giorno.
Chi è l’ombra? La spia, il poliziotto, la minaccia, l’amico, quello uguale eppure diverso, il terrorista, l’extracomunitario, il carceriere, la vittima, l’assassino? Mi sono fatta questa domanda fin dai primi giorni di prova, dopo aver visto le scene che gli attori mi hanno presentato in cui un’ombra accompagnava ogni passo compiuto nella luce e nel buio,.
Lorenzo Gleijeses e Manolo Muoio hanno introdotto il tema del suicidio, con atteggiamenti di stanchezza e insensatezza della vita, con testi distaccati, indifferenti, sprezzanti e disaffezionati che stanno bene in bocca a un vecchio senza illusioni,. Come accettare queste parole in bocca a giovani che dovrebbero immaginare di avere tutta la vita davanti a sé? Non solo ho acconsentito a questi temi e queste parole, ma li ho seguiti, per capire qualcosa che ancora non so. Nella mia primissima reazione ho scritto agli attori: “Mi dirigo verso l’ombra; la vecchiaia che si oppone ai ricordi di gioventù, l’attesa di qualcosa che non viene eppure viene – la morte – e la possibilità di scegliere di uccidersi. Aspettare la morte; volere la morte; volere non più vivere; un’eutanasia collettiva.
Nel saggio di Gilles Deleuze “L’esausto” che Lorenzo mi ha dato prima di cominciare le prove leggevo: “Io, l’idea che ho dell’amicizia è piuttosto quella di Samuel Beckett. Due tipi uno accanto all’altro che stanno lì e non hanno niente da dirsi. Quel che conta in Beckett sono le “posture”. Chi si sdraia sta ancora bene. Sdraiarsi è molto faticoso. Si muore seduti.” E poi nelle prove vedevo davanti a me due vecchi seduti sulla panchina di un parco che si raccontano gli amori passati e le avventure di gioventù. Solo che davanti a me c’erano due giovani – almeno due uomini più giovani di me – che sembravano aver rinunciato alla vita.
Dovevo cercare in altre direzioni. Il primo testo che ho letto è “L’altro” di Ryszard Kapucinski. Il giornalista era morto da poco e i suoi libri erano in offerta in tutte le librerie: “… uso l’altro per distinguere gli europei occidentali bianchi da coloro che definiamo gli altri, vale a dire gli extraeuropei non bianchi; gli altri sono lo specchio in cui guardarsi e capire chi si è; solo grazie all’Africa ho scoperto il colore della mia pelle; un altro si nota per tre caratteristiche principali: la razza, la nazionalità, la religione, tutti e tre contengono una forte carica emotiva; il mio altro è una persona fortemente emotiva; trattiamo l’altro soprattutto come una minaccia. Lévinas dice che l’altro è il nostro maestro…”
Poi Umberto Galimberti che in “L’ospite inquietante”scrive: “Per essere se stessi occorre accogliere a braccia aperte la propria ombra, ciò che rifiutiamo di noi.
RASSEGNA STAMPA
Gleijeses e Beckett, nuovo e antico di Franco Quadri
C’era qualcosa di nuovo, anzi d’antico, nel gesto di Lorenzo Gleijeses, napoletano e giovanissimo figlio d’arte, che all’inizio del secolo andava in Danimarca a cercare un suo modo d’esprimersi nel rigore dell’Odin Teatret. E dopo che, con la guida di Julia Varley, inglese cresciuta a Milano, aveva dimostrato capacità di prim’ordine tre anni fa interpretando quel suo Amleto partenopeo alla ricerca della madre che ancora si replica, si è di nuovo rivolto alla sua guida di maestra con la proposta precisa di fare uno spettacolo non di Beckett ma su Beckett, che non puntasse sulla vita e sulle parole del grande Samuel, quanto sul suo modo estremo di vedere e rappresentare l’umanità. E a far da guida ecco allora il famoso saggio di Gilles Deleuze che appioppa al personaggio-base dell’opera beckettiana il termine esausto, attingendo nel contempo a scritti congeniali di altri scrittori, o dalla poesia in cui Nazim Hikmet racconta il naufragio di un africano solo in barca ad affrontare l’Atlantico e morirvi, recepito nel titolo definitivo dello spettacolo, L’esausto o il profondo azzurro, determinando in modo sostanziale la svolta coloristica impressa dalla regista all’ultima parte. Ma sono esseri interdipendenti, tesi dal principio alla fine a trovare un rapporto alla reciproca inesistenza, i due, chi a turno dice io e la sua ombra, condannati all’autonegazione e in perenne movimento, specchiandosi l’uno nell’altro e odiandosi come due fidanzati, due copie tese a una perenne fuga che si esaurisce lì per lì, in una mancanza di situazione generatrice di continui sviluppi visivi, movimenti ritmici di grande forza espressiva che contrappongono il biondo bravissimo Gleijeses e il bruno Manolo Muoio, un ottimo danzatore che dimostra di sapere usare benissimo la voce. Con pochissimi oggetti in una scena vuota, “lo spazio si fa tempo”; i settanta minuti di spettacolo sono tutti da guardare e, pure da sentire con quelle fughe nostrane che incorporano la nuttata da passare di Eduardo e un ritornante canto popolare siciliano a sorreggere due personaggi intenti a chiedersi se hanno un senso. Pubblico giovanissimo e grande successo.
La vitalità prorompente di Gleijeses jr di Franco Quadri
Ha l’entusiasmo della giovinezza e la profondità intellettuale consentita a un under 30 nato e cresciuto nel mondo del teatro, capace di trascorrere da un passato di figlio d’arte napoletano alla severità nordica dell’Odin Teatret di Eugenio Barba, uno spettacolo come L’esausto o il profondo azzurro di Lorenzo Gleijeses, che ho potuto seguire in qualche prova e visto finito almeno quattro volte, tutte soddisfacenti perché non si smette di coglierne doppi fondi e Significati reconditi, al di là di una bellezza che subito colpisce ma che permette di scoprirne la quantità di interpretazioni possibili. Si parte da due personaggi tutti neri, immersi in un provvisorio nero ma disponibili al trapasso nel bianco, quando non confessano la rispettiva natura di ombre, intenti come sono a una ininterrotta ricerca di se stessi, dubitando nel contempo della loro reciproca esistenza, tesi come sono ad inseguire nel loro sogno a occhi aperti una visione beckettiana dell’universo. L’esausto del titolo si rifà in effetti alla qualifica con cui in un saggio Gilles Deleuze definisce il personaggio tipo ricreato dallo scrittore irlandese non solo nel suo teatro maggiore, ma nei romanzi, nelle poesie, nei desolati dramaticules degli ultimi anni, non privi di riflessi esilaranti come nel cinema, pensando al Film con Buster Keaton o ai video creati dal Maestro su certe sue regie in Germania o sui lavori elaborati con Cluchey nel carcere di St.Quentin. Ma la qualità impressionante del lavoro svolto da Lorenzo Gleijeses con Manolo Muoio sta nel loro riuscire a entrare in questo universo attraverso il fiotto prorompente delle immagini dei ritmi con cui le parole si rincorrono, tra alte pareti chiare che riflettono altre ombre con le loro, contemplando con souplesse la propria inesistenza nella disperazione di una vita che non smette di suscitare la loro ilarità, in cui Beckett è sempre presente ma senza mai essere citato letteralmente e riesce abilmente a convivere con Edoardo, Borges, nenie sicule, perfino con l’azzurro del mare, dove tentare di annegarsi con un pesciolino in una boccia di vetro che li rappresenta, pensando a un racconto di Nazim Hikmet, in una favola tutta inventata e terribilmente vera.
Un allestimento sulla scia del Living e dell'Odin. Visto a Napoli di Renato Nicolini
Lo stanco non può più realizzare, ma l’esausto non può più possibilizzare. Non c’è più possibile. Esaurisce il possibile perché è lui stesso esausto, oppure è esausto perché ha esaurito il possibile?. Sembra difficile mettere in scena questa tesi, centrale nel saggio di Gilles Deleuze L’esausto: eppure l’incontro tra Julia Varley, figura di primo piano dell’Odin Teatret di Barba, Lorenzo Gleijeses, premio Ubu 2006 come nuovo attore, e Manolo Muoio, che ha iniziato la propria carriera d’attore seguendo il Living Theater nella tournèe italiana del ’92, è riuscito a tanto. La regia di Julia Varley e la drammaturgia di Lorenzo Gleijeses si sono estese anche agli altri due, riproponendo felicemente – a quarant’anni dal ’68 – lo spirito migliore del lavoro di gruppo, così importante per la ricerca teatrale. Lo spettacolo inizia con un pesce rosso nella sua boccia di vetro, e termina con le immagini di pesci che nuotano in libertà nel mare (il sottotitolo è Profondo azzurro). “C’è un futuro per i pesci che nuotano in libertà nel mare? C’è un futuro per gli annegati che hanno abbandonato i loro paesi? C’è speranza per i giovani di oggi?”, si chiede Julia Varley nelle note di regia. La bellezza dello spettacolo consiste nella capacità di unire temi come la paura del diverso che vieta l’accoglienza e fa decadere la legge dell’ospitalità (la sordità dell’Europa per gli immigrati: Julia Varley avverte stridore tra la sua “tranquilla casa nella campagna danese”, e il fatto che proprio in Danimarca gli immigrati possono essere rinchiusi nei Cpt a tempo indeterminato…) e l’attrazione del suicidio tra i giovani sotto i 25 anni, seconda causa di morte dopo gli incidenti automobilistici. “Mi rifiutavo di credere che le giovani generazioni siano già stanche di vivere. Da dove viene questa spossatezza che li pervade, questa mancanza di speranza, questo preferire di volere il nulla, piuttosto che non volere, come dice Nietzsche?”. La risposta proposta è nel teatro, capace di dare nuova vita al senso della possibilità. Solo nel teatro “l’altro ed io sono lo stesso personaggio” (Deleuze). La messa in scena è imperniata sul tema dell’ombra: sull’ambiguità dell’ombra, che è insieme doppio inquietante ed insieme necessario complemento della nostra identità, e l’oscurità non conosciuta dell’altro da sé, del diverso. Ombre proiettate da fonti di luce, ombre filmate che si muovono in modo autonomo dai personaggi che le hanno generate, raddoppio dell’ombra moltiplicato dagli specchi. L’ombra unisce e raddoppia i gesti di Gleijeses in quelli di Muoio, cogliendo all’inizio i due attori come in un momento di grande stanchezza, nascosti da grandi impermeabili col volto coperto da grandi cappelli come in un fumetto di Tex Avery, proiettate nelle sconfinate solitudini dell’America di Hopper o nel paesaggio mediterraneo, tra claustrofobiche scale a chiocciola alla Siodmak e blu del cielo e del mare, in un progressivo affinamento del tema, e nello svelamento progressivo dei loro corpi: le mani, i volti, i gesti, un momento quasi di danza, l’acqua del vaso versata lentamente da Lorenzo sul volto di Manolo. Gesto dal vivo, ombre cinesi e fotografie, si integrano tra dissonanza ed armonia, in una rivisitazione dell’avanguardia teatrale che – coerentemente alla lezione dell’Odin – non rinuncia nel teatro né all’uso dell’immagine né all’uso della parola, ma subordinano entrambe al rigore del concetto. Notevole conclusione della stagione teatrale del Mercadante Stabile di Napoli.
'Esausto' Gleijeses; che invenzione il Beckett gestuale / Da non perdere all'Out Off di Ugo Ronfani
Lorenzo Gleijeses è all’Out Off con un dittico – “L’esausto e il profondo azzurro”, e dal 18 al 21 dicembre “Che tragedia”: chi vuole capire il nuovo teatro farà bene a non perdere questi spettacoli di un figlio d’arte che scavalca le frontiere delle vecchie convenzioni munito di un solido bagaglio culturale e con un rigore interpretativo oggi raro. La difficoltà di entrare nelle logiche di questa nuova drammaturgia e compensata dall’impatto emotivo. In “L’esausto e il profondo azzurro” muoviamo dal nichilismo stoico di Beckett per andare oltre e “ascoltare” una lingua gestuale che accompagna le parole del testo, dello stesso Gleijeses. Della vita “esausta” che viviamo (definizione attinta da un saggio di Deleuze su Beckett) abbiamo in metafora l’affannoso, ermetico agitarsi dei due interpreti (con Gleijeses anche Manolo Muoio, formatosi con il Living Theater, mentre la regia è Julia Varley, figura di spicco dell’Odin Teatret di Eugenio Barba). Sulla scena occupata soltanto da un tavolo, tre sedie e pochi oggetti, che come nel beckettiano “Giorni felici” sono il superfluo di chi vive, l’Esausto (Gleijeses) si muove in una irragionevole agitarsi accompagnato dal suo doppio, l’Ombra (Manolo Muoio). Il senso della vita è, beckettianamente, restare in vita e quando, dietro le quinte, esplode un colpo di rivoltella l’Esausto e l’Ombra s’afflosciano come pupazzi: hanno finito i loro “giorni felici”. Tutto qui? Tutto qui. Ma c’è, ipnotizzante, il frenetico agitarsi dei due attori che mimano fino allo spasimo i gesti dei “dannati” del “Depeupleur” di Beckett (la loro gestualità è il vero linguaggio dello spettacolo). E in parentesi fra i guizzi del pesce rosso nella vaschetta e le immensità, alla fine, dei fondali marini con miliardi di pesci ci sono tutti i fantasmi degli spettatori. “C’est la vie, messieurs!”.
Lorenzo Gleijeses in 'L'Esausto o il Profondo Azzurro' di Maria Grazia Gregori
Uno spettacolo in cui Beckett giganteggia pur non essendo mai nominato, dove l’atmosfera, le citazioni sottili, il ritmo ora condannato all’immobilità ora a un’apparente nevrosi cinetica riportano – anzi semplicemente citano – personaggi, situazioni del grande drammaturgo irlandese. La scena è sghemba, un taglio che corrisponde a quello di una visione, di un’immobilità o di un movimento ripetuti oppure cancellati ogni volta. In questo luogo non luogo, sostanzialmente vuoto appaiono, di volta in volta, pochissimi oggetti: uno specchio, dei pesci in una boccia colma d’acqua, una moneta, una pistola…Dentro ci stanno due uomini vestiti di nero, all’inizio uno di loro indossa un cappello a falda larga che gli nasconde quasi interamente il volto. I movimenti, quando ci sono, sono rallentati quando non del tutto assenti. Il rapporto fra i due personaggi suggerisce un tempo e una pausa, un silenzio, un interrogarsi sulla propria esistenza, al bordo di una vita dove si dice – citando Eduardo – è la “nuttata”, l’oscurità primordiale, che deve passare per poter essere vissuta. L’esausto,che nel titolo cita un saggio del situazionista Gilles Deleuze, è uno spettacolo che potremmo dividere in due parti: a una parte dove è l’immobilità a farla da padrona, e a spingere a evocazioni non solo mentali, ma cariche di immagini, di presenze, di ricordi, si oppone idealmente il mondo di un Clov esasperato, dai movimenti biomeccanici, che si stagliano e si dilatano contro il chiarore astratto di immagini proiettate. In scena, in un rapporto simbiotico fatto di attrazione e di completamento dell’altro: un’unione che si sviluppa per tormento. Personaggi che si confrontano ora muti, ora sostenuti da un flusso di parole, ora avvinghiati in un abbraccio difficile da districare, ora impegnati in una danza dai movimenti spezzati fatta di attrazione e di repulsione. In questo spettacolo fonte dell’ispirazione di Lorenzo Gleijeses che ne è l’ideatore e interprete con Manolo Muoio, è dunque, il mondo visto con gli occhi di Beckett, ma letto con libertà espressiva, dove è evidente il riferimento ad Aspettando Godot, e a Finale di Partita, ma anche ai suoi ultimi testi dove l’immobilità, il senso di fine prossima è magari scandito da un canto popolare. La regia di Julia Varley accentua con forza questa dicotomia, questa duplicità ma è sulle spalle di Gleijeses e di Muoio che poggia il peso di questo spettacolo sorprendente e “ingenuo”.
Così Beckett danza con Gleijeses di Magda Poli
Un giovane uomo cerca un rapporto con la sua ombra o con l’altro da se o con i suoi ricordi. Vestito di nero, cappellaccio nero a cancellare il volto lui è insieme all’altro, sempre vestito di nero, in un luogo fisico e mentale. Su un fondale proiezioni di ombre e immagini, in scena un tavolo, tre sedie e un pesciolino rosso in una boccia d’acqua. Lorenzo Gleijeses e Manilo Muoio sono i protagonisti de “L’esausto o il profondo azzurro” dello stesso Gleijeses con la regia di Julia Varley che imprime allo spettacolo una fisicità da teatro danza. Uno spettacolo su Samuel Beckett che mutua il titolo dal saggio “L’esausto” che Gilles Deleuze dedica al grande drammaturgo e l’azzurro dal mare di una poesia di Nazim Hikmet che inghiotte chi cerca disperato di attraversarlo verso una vita migliore. Il testo è denso di citazioni, di personaggi beckettiani e non, che si incontrano e si fondano l’uno nell’altro in uno spettacolo che ha i pregi e i difetti della gioventù, da un lato l’urgenza di cercare e d’esprimersi, dall’altro l’ansia di troppo dire e troppo esplicitare al punto di risultare a volte oscuri. Ma una sensazione ben emerge: la percezione di dolorosa impotenza, di difficile opposizione all’accidia dell’esausto, cui Beckett può dare sollievo suggerendo come il senso della vita sia semplicemente vivere.
Il fresco Beckett di Gleijeses di Stefano de Stefano
Da una parte la lezione dell’Odin Teatret, presente nella sua formazione laboratoriale e nella regia di Julia Varley. Dall’altra la magmatica, complessa, per certi versi sfuggente materia prima del teatro di Beckett. Ed in mezzo lui, il giovane attore ed autore Lorenzo Gleijeses, che sfidando l’età e l’atmosfera di un repertorio storicizzato, ha cucito con personalità le trame di uno spettacolo che rivive il mito dell’autore irlandese in un contesto di assoluta contemporaneità. Basterebbe questa valutazione per consigliare la visione de “L’esausto, o il profondo azzurro”, in scena al Ridotto del Mercadante fino a domani. Perché pur disegnando un tracciato non lineare, Gleijeses riesce a restituire il sapore agrodolce del teatro di Beckett a cui fa riferimento per allusioni più che per citazioni. Da “Aspettando Godot” a “Finale di partita”, ma rivivendo attesa e incomunicabilità con la freschezza di una generazione, la sua e quella del partner di scena Manolo Muoio, che offre disincanto all’opera di uno dei più grandi drammaturghi del XX secolo.
Gleijeses + Varley + Deleuze x Beckett. Risultato vincente. di Sergio Lo Gatto
Una scatola. Un oggetto semplice e di facile classificazione, qualcosa che occorre per contenere qualcos’altro. Questo ci sembra il sottilissimo lavoro ideato da Lorenzo Gleijeses e Julia Varley: uno spazio che all’occorrenza si chiude, all’occorrenza si apre. Forma e colore sono indifferenti, la funzione resta la stessa.
Di raccontare la storia di questo ‘enfant prodige’ del nostro teatro si è occupato qualcun altro, mesi fa, su queste stesse pagine, aprendo uno spiraglio su una delle carriere più originali degli ultimi tempi. Da Napoli a Pontedera, passando per Russia, Inghilterra, Lituania e innumerevoli input tra teatro e danza. Un padre attore, quindi una grande eredità. Ma basta così: il resto è puro talento.
“L’esausto – o il profondo azzurro” debutta al Mercadante di Napoli nel maggio 2008, frutto di un felice sodalizio tra il giovanissimo attore napoletano (classe 1980) e una delle perle dell’Odin Teatret, l’attrice inglese Julia Varley. Al binomio, già autore de “Il figlio di Gertrude”, si aggiunge il contributo dell’attore-performer Manolo Muoio.
Se, dopo aver visto innumerevoli messinscene dei testi di Beckett, doveste per caso sentirvi quasi preparati, o anche solo appagati da ciò che avete visto e sentito, ci prenderemo la libertà di strattonarvi il braccio per condurvi a una replica de “L’esausto”. Non uno spettacolo “di” Beckett, in un certo senso “da” Beckett, ma innanzitutto uno spettacolo “per” Beckett. Un omaggio, e dei più fini.
Punto di partenza è il saggio omonimo di Gilles Deleuze sullo scrittore irlandese, un po’ difficile da rintracciare, ma che vale assolutamente la pena leggere, magari appena visto lo spettacolo, per capire cosa e in che modo i tre autori siano riusciti a mettere insieme, creando quello che sembra essere un contenitore di immagini e intuizioni. Una scatola, appunto.
Piccola digressione filosofica: se, parlando dell’agire, lo si identifica come uno sforzo teso a realizzare un possibile “in funzione di certi scopi, progetti e preferenze”, e se la condizione di stanchezza nega il successo a quello stimolo ad agire, Deleuze parla dello stato di esaurimento in questi termini: “Le variabili di una situazione si combinano a condizione di rinunciare a ogni tipo di preferenza, a qualsiasi organizzazione di obiettivi, a qualsiasi forma di significato”. Alle azioni viene allora sottratto completamente il senso, in termini proprio di direzione dell’intenzione. Lo spazio inaridisce pian piano come granturco mai colto, si pietrifica e lascia solo spigoli, ormai neppure più acuminati, nemmeno più pericolosi perché levigati dal tempo, dall’immobilità. Deleuze parla dello spazio di Beckett come di uno “spazio qualunque, disertato e deserto, pur essendo geometricamente determinato”.
All’interno di questo spazio si muovono, immanenti, Gleijeses e Muoio. Uno ombra dell’altro, uno causa persa dell’altro, uno scommessa mancata dell’altro, in un continuo scambiarsi i ruoli, come denti di una ruota che scalano all’infinito nello stesso ingranaggio. I loro movimenti sono piccoli voli, i loro dialoghi soffi di semantica. Esposti alle intemperie dell’esaurimento, i corpi fungono da cassa di risonanza, lasciano entrare la corrente, gonfiando le viscere di inutilità, gelandosi le vene con le ossessioni del dove, del perché, ma soprattutto del chi.
Non è semplice esistenzialismo, quello di Gleijeses, Varley e Muoio, ma pura consapevolezza, annullamento delle potenzialità del fare. Nei movimenti si intuisce il rigido lavoro della disciplina grotowskiana, che riesce a scomporre il corpo di Gleijeses come una bambola rotta; si gusta l’acrobatica di Muoio e, grazie anche allo straordinario spazio scenico di Paolo Calafiore, così asettico eppure vivo, astronave alla deriva in spazio vuoto, si è testimoni di una regia assolutamente presente. Varley gioca con la prossemica tra i due performer, avvicinando i corpi e le voci in onde di contrazione-rilasciamento che simulano il muscolo cardiaco.
E poi c’è il testo. L’unico elemento riconoscibile è una lotta estenuante tra due individualità che tentano di darsi senso a vicenda: nel continuo alternare creazione e annullamento l’uno dell’altro, i due si sondano a vicenda occhi, movenze e risposte, alla ricerca degli elementi necessari ad affermare un’esistenza. Finendo poi per divenire l’uno la nemesi dell’altro, sparando da pistole che non sparano e versandosi in faccia sangue come acqua da una boccia per pesci rossi, lasciando branchie all’aria l’animale, nell’agonia del non-respiro. Scatola chiusa.
Un’operazione di finissima genialità interpretativa, di grande intuizione, uno spettacolo vibrante di una follia inaspettata, di cui sempre più spesso, nel mondo degli intellettuali sterili, si sente reale bisogno.
Non si incontra, gustando questo ricco piatto, neppure mezzo sapore fuori posto. Volendo anche cercarle, le dissonanze gustative risultano assolutamente in linea con questo schema di nouvelle-cuisine: la ricerca di certi aromi talmente sottili da renderne dubbia l’esistenza si concretizza come uno degli studi più originali sulle potenzialità di certe proprietà organolettiche della scena…. Di tali intuizioni non resta che un effimero profumo, troppo sottile per poter essere custodito, ma abbastanza corposo da poter essere rimpianto.
Un tuffo nel mare di Beckett di Diego Vincenti (Hystrio)
“Pensa in grande il giovane Gleijeses…Gleijeses fa sue alcune direzioni già dell’Odin immaginando un testo che al fisico concede molto, ma dimostrando una sicurezza drammaturgia che fa davvero ben sperare…La presenza scenica di Gleijeses è carisma che non si compra….
In certe micro-coreografie omogenee alla recitazione, la forza poetica si amplifica esponenzialmente, la bellezza a farsi concetto totale. Di mente e corpo. E ci si emoziona”.
www.teatro.org
di Paola Perrotta
Dal primo atto, due uomini vestiti come vagabondi, che evocano Estragone e Vladimiro, sono seduti su una panchina. Sono lì non perché un tale Godot ha dato loro appuntamento, ma perchè… non ci è dato di saperlo. Forse sono Lorenzo Gleijeses e la sua ombra, talvolta parte di unica persona, talvolta nemici. L’esausto vuole esplorare l’universo di Beckett o, meglio, si serve dell’universo di Beckett per porsi nuovamente interrogativi sull’esistenza, sull’incapacità di vivere e sul fascino della soluzione estrema del suicidio.
La pièce teatrale di Lorenzo Gleijeses, figlio d’arte, è un vortice di tecnica, gestualità, parole che turbinano dallo spazio scenico allo spazio dell’interiorità.
Distaccandosi dalla tradizione della commedia del padre Geppy, ma lasciandosi sfiorare dalle incursioni della cultura partenopea, Lorenzo propone una Rassegna racchiusa nel “progetto speciale Lorenzo Gleijeses”, in scena al Teatro India fino al 14 giugno. Con “Il figlio di Gertrude” si attraversa l’intimità dell’attore stesso, il rapporto con la madre, le proprie radici, mentre ne “L’esausto” il discorso si amplia ad un punto di vista universale e Lorenzo fa ricorso all’opera di Beckett, rivoluzionatore del teatro contemporaneo, come d’altronde lui stesso si è rivoluzionato, nel suo personale percorso artistico, rispetto alle prime conoscenze teatrali dell’infanzia. Attraverso la tecnica e gli esercizi di stile, i gesti, la voce i movimenti, tutto è calcolato, preciso, studiato; tutto è frutto dello studio severo del teatro nordico del Odin Teatret. Vincitore del Premio UBU con “Il Figlio di Gertrude” questo è il risultato del lavoro svolto insieme a Julia Varley del Odin Teatret, che ne cura la regia. La forte capacità espressiva, unite alla tecnica, permettono a Lorenzo di passare facilmente dal rigore accademico dei gesti alla spontaneità del teatro partenopeo. Impersonare la figura de ‘o pazzariello assume un significato più vasto: la pazzia è presente in tutta l’opera, quasi come soluzione all’impossibilità di risolvere la tragica realtà dell’esistenza. Il profondo azzurro che si vede alla fine è, come ci ricorda la regista, l’immagine della libertà dei giovani d’oggi. Perchè i pesci continuano a nuotare? Certo non per un senso storico, ma solo per continuare a vivere.
Roma,09/06/09 Teatro India
www.teatroteatro.it
di Fabio Magi
Se è vero che ogni uomo è “uno nessuno e centomila”, allora il concetto stesso di dissociazione mentale, più che patologia, può considerarsi un tratto costitutivo della stessa natura umana. Beckett tratta spesso nelle sue opere questo tema, diventato colonna portante de L’esausto o il profondo azzurro di Julia Varley. Sulla scena due uomini: “l’esausto” (così Adorno definì l’archetipo del personaggio beckettiano) di Lorenzo Gleijeses, e la sua “ombra”, un Manolo Muoio al tempo stesso complice, vittima e carnefice del primo, proiezione parodossalmente evanescente e concreta della sua interiorità.
All’inizio sono entrambi seduti su una panchina, come Vladimiro ed Estragone di Aspettando Godot, in abiti scuri quanto le loro parole, a metà strada tra assurdo e psicanalitico. Poi lo spettacolo si anima, le ombre prendono forma e il discorso si focalizza sul personaggio di Gleijeses. I frammenti della sua storia emergono alla superficie con parole smozzicate e una gestualità lenta e dolorosa, che si addentra nella sua interiorità come una rete di tentacoli per estrarne debolezze e sconfitte: il desiderio della paternità negata, della felicità ad ogni costo, della resa di fronte alla vita.
Ciò che la voce non è in grado di restituire viene reso dalla straodinaria fisicità dei due interpreti, funamboli del movimento in grado di condurre l’espressività del loro corpo ai limiti estremi. Lo stacco danzato a metà spettacolo richiama le suggestioni del tanzteater ed è tutto giocato sul contatto dei corpi, sul mescolamento fisico e mentale di queste due realtà individuali evocate su una scena minimal e asettica, dominata da pochi oggetti di alto valore simbolico.
Le citazioni si inseguono per tutto lo spettacolo: non solo Beckett, ma anche Eduardo de Filippo e la canzone popolare siciliana. Un gioco di scatole cinesi che conduce ad un finale di timbro esistenzialistico, dove la riflessione sul senso della vita e sul valore del suicidio impongono una stasi. L’esausto tenta di togliersi la vita diverse volte, dapprima mimando l’atto di spararsi, poi premendo il grilletto sul serio. L’effetto non è letale, ma porta un cambiamento, riducendo al silenzio la sua ombra e rivelando con cinismo la morale nascosta dietro all’atto estremo: “Qual è il senso della vita? Continuare a vivere”.
recensito da Redazione il 23/09/2008 10.09.12
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