Cerimonia
regia e drammaturgia Lorenzo Gleijeses
con Lorenzo Gleijeses, Manolo Muoio
e con la partecipazione di Anna Redi
spazio scenico Roberto Crea
light design Gigi Ascione
paesaggio sonoro Lorenzo Gleijeses, Mauro Penna
area tecnica Luigi Luongo
Cerimonia è uno studio, un work-in-progress, la scintilla che ha messo in moto il lavoro è stata Cerimonia per un negro assassinato, testo dello scrittore spagnolo contemporaneo Fernando Arrabal. Di esso non è rimasta, alla fine, una sola riga, ma soltanto l’idea centrale: tre persone rinchiuse in una casa, in fuga dalla realtà esterna, giocano a fare teatro, provano ad essere attori.La loro ricerca li spinge verso un mondo popolato da immagini evanescenti, un loro mondo immaginifico, un universo autarchico: un rifugio, una giostra, una girandola impazzita di scritti, icone, autori, immagini, personaggi…Una ricerca d’identità attraverso il teatro, che diventa perdita d’identità.Una forma di autismo li intrappola in una quarta parete che li separa inesorabilmente dal fuori, in un’eterna stanza dei giochi.E’ sempre più difficile distinguere tra sogno e realtà, tra immaginazione e dati di fatto, tra attore e personaggio. I personaggi sono ora dei risuonatori, dei trampolini che permettono ai tre attori di raggiungere picchi intellettivi ed emozionali mai raggiunti nel grigiore quotidiano.…lo spazio narrativo è scomparso… … i ponti con l’esterno sono esplosi…Numi tutelari del vuoto e assenze evocative, uno stuolo di artisti che non sono riusciti a coniugare la loro visione dell’arte con la vita quotidiana, feriti a morte dalla propria stessa arte: poeti punk e maledetti, ci piace chiamarli (Vladimir Majakovskij,Pier Paolo Pasolini, Jean Genet, Nico, Iggy Pop, Ian Curtis…).Uomini e donne che spesso sentirono la vita troppo intensamente per sopportare di viverla.Un universo di frammenti, generato dall’ esplosione di molteplici forme espressive, dallo sguardo verso le derive del teatro e delle distorsioni grottesche della società dello spettacolo nel suo stadio più avanzato.”Segnali tra le fiamme” di una metodica autocombustione.
APPUNTI DA UNA CATASTROFE LUMINOSA
J. Rodolfo Wilcock
Oggi il tiranno può dire, e costringere tutti a dire, che il fucilato si è ucciso in un momento di sconforto: finché il linguaggio rimane sapranno tutti però che egli è stato fucilato.
Kenka Lekovich
Un ludo scenico spinto all’eccesso, tra le quinte della Città Globale in fiamme nell’era dell’ADSL. Il macchinoso gioco nella casa che brucia, di tre attori che si credono inestinguibili più dei loro stessi carburanti performativi. Le voci chiare e penetranti di una catastrofe luminosa. “Cerimonia” potrebbe essere questo e una quantità, impressionante, di altre suggestioni. Complicate da dirsi, come le emozioni che riesce a zippare in 55 minuti di perfomance a ritmo vertiginoso. Mandandoci a casa con una centrifuga stroboscopica di impulsi al posto del cervello. E un fascio di nervi scoperti tirati a fionda, che continueranno a vibrare per giorni. Complici, non si sa quanto involontari, di un rito teatrale pericoloso, secondo la formula di Emil Cioran che consegnava a un libro – e per estensione a ogni altro evento artistico – il compito di «frugare nelle ferite, provocarne di nuove». Con la delicatezza d’animo di un Perseo, vincitore di mostri. Riconoscenti, infine, a “Cerimonia” per aver dimostrato ancora una volta come il linguaggio sia più forte di qualsiasi tirannia. Simile al petalo della stella di Betlemme nella meridiana di Linneo, che quando si schiude lega il tempo alla topografia. O al volo della lucciola nei campi, che quando con il suo addome scintillante si posa sul palmo della mano, getta un bagliore intenso proprio sulla linea della vita. Ma nel tempo devitalizzato e mangiatore compulsivo di lucciole in cui siamo, che costringe il poeta a dedicare «ai leggeri trattori luminosi» delle notti estive l’ultima epopea, un bagliore benché intenso può non bastare. Ci vuole una potente luce frontale di 5200 gradi Kelvin – la stessa del giorno al suo massimo splendore, sparata sulla linea della vita ripetutamente. Ci vuole l’ossessivo, esasperante drum&bass luminoso di “Cerimonia”. I personaggi, per cominciare. Sulla scena sono tre, ma a contarli sul calcolatore di un tempo sovratemporale, potrebbero benissimo essere trecento o anche tremila. Ognuno di essi è portatore, insano, di un solo mal d’anima invariabilmente spalmato sulla superficie terracquea: quello di esistere in un sistema di vasi comunicanti rotto. Proprio come i «settanta personaggi principali che non si incontrano mai» nello “Stereoscopio dei solitari”, romanzo generato dalla visionaria mente di J. Rodolfo Wilcock, in vita letto poco, postumo ancor meno. Sul touch screen dello stereoscopio di “Cerimonia” non vedremo scorrere galline consulenti editoriali, né oracoli che girano la città in camioncino, o società di scrittori chiuse nell’armadio, o tizi che scivolano continuamente nella quarta dimensione. E neppure fabbricanti di numi – anche se i numi, “Cerimonia” li farà venire giù tutti, dall’empireo dei nostri bucati nell’ozono cieli. Vedremo elementi semmai ancora più disturbanti e disturbati, di una generazione nuova ed evoluta, ma che porta lo stesso gen(i)oma dei wilcockiani (e di tanti altri prima e dopo), confitto nella lingua come un prezioso piercing di famiglia. Personaggi che sapranno mostrarsi esilaranti e al contempo ferocissimi, e sognatori e iconoclasti, di una poesia straziante e di un cinismo celestiale. Discesi, secondo i calcoli di Wilcock, «per non complicate vie da Flaubert, che generò Joyce e Kafka, che generarono noi». Discendenze che in “Cerimonia” non troveranno scorciatoie, nel piantarci sotto il naso un iperbolico albero genealogico dei «poeti maledetti» e servirsene senza ritegno. Come fa il bambino imboscato nel frutteto che non riesce a fermarsi finché non ha spazzolato l’ultima ciliegia. E quando ha finito, carica la cerbottana con i noccioli scarnificati e spara, spara, spara. Spara, dalla canna delle tue omeriche corde vocali, tremendi ordigni di parole, colpisci. Trafiggi a morte il bersaglio- spettatore e rovistagli nella ferita con i tuoi tentacoli dum-dum, fino a che non muore per la seconda volta. La terza, la quarta e la centomiliardesima, finché capirà di essere non immortale. Ma vivo, nell’esitazione metafisica di un tuffo nel qui e ora. Compiuta la missione, Pasolini, Burroughs, Genet, Majakovskij, Mishima, Tarkovskij, Ian Curtis e così via, sfileranno in gran parata sul palcoscenico listato a lutto. In onore e memoria della Terra che li ha defenestrati, per fare largo alla Notte del Mondo. Calerà, sui nostri giallosulfurei cieli, nell’ora esatta in cui avremo finito di sterminare in noi non l’ultimo Dio, bensì l’ultimo desiderio di DioNell’attesa cha la Notte del Mondo arrivi e spazzi via il creato e l’increato, ognuno è democraticamente libero di fare quel che meglio crede. Di nascondersi per esempio sotto il letto, o restarvi seduto in contemplazione come sulla sponda del fiume o sull’orlo del mondo. O di chiudersi a chiave in camera sua, in un sempiterno picnic hikikomori. Non ha bisogno di nessuno, lui. È autosufficiente. È un artista, un attore, un mimo, un acrobata, un teatrodanzatore, un calibratore, uno stalker, una rock star, una diva del cinema, una replicante, una mutante, una turbogaudente, una madre coraggio catodica, un presidente dell’america, un gesùafricano che ci salverà dall’egocrate nano, un teledespota, un tanatoesteta, un metaprofeta, un omeopata, un alchimista, un budellocontorsionista… Et voilà, mesdames et messieurs, eccoci barricati nell’eterna stanza dei balocchi chiamata teatro. Il nostro personale surrogato della presenza, un modello innovativo di uovo ludico-anecoico- iperbarico non sintonizzato sul mercato, insonorizzato contro tutti i rumori. Gli appaltadolori e gli equalizzatori di umori. Non c’è campo qui. Solo fiori. Siamo attori hikikomori e ci siamo chiusi nell’uovo.Fuori, una grottesca Fabbrica per la normalizzazione dell’insolito è al lavoro. Ha ramificazioni ovunque, si riproducono alla velocità di un virus nel sangue per il quale non esiste cura, e timbra i suoi prodotti con un «Fallocefalo» stilizzato che ricalca la testa del Direttore Generale. Giorno e notte produce squallore, mediocrità, veleni avanzati, uomini socialmente algidi, schiavi dell’algebra del bisogno. Prigionieri dell’iperuranio impoverito delle loro stanche di vivere idee, espropriati dell’ultimo brandello di affettività. Persino l’intesa tra la tartaruga e il termometro di Lewis Carroll è più umana. L’umanità è diventata un enorme bivacco solitario, dove ci si accampa a turno nell’ora in cui non sappiamo niente l’uno dell’altro. Un branco sedato di lupi al guinzaglio dei loro smartphones, in una desolata steppa wireless. Con curate protesi di artigli fluorescenti digitano messaggi a un destinatario remoto, e quando si guardano nello specchio l’immagine riflette i loro occhi spenti, pixelati con profondi cerchi di assenza. Bisogna proteggersi dai lupi. Bisogna restare blindati nell’uovo autarchico. Intubarsi al giochino preferito, premere immaginari tasti, materializzare e smaterializzare mondi, in una successione senza fine di finestre pop-up di realtà esplose. (Avvisiamo i gentili spettatori che tutte le connessioni possibili sono permanentemente interrotte). Legarsi con il filo spezzato di ogni comunicazione, stringere così forte fino a sentire più NIENTE. Sveglia! Svègliati. Corri. Corri. Corri. Più del suono, più della luce. Devi smaltire l’anestetico. E adesso balla, balla, balla. Calza le scarpine di carboni ardenti e balla sulla pista di lava ghiacciata. Avanti su, prendi il microfono e sfregia, sfregia l’aria di vinile con incandescenti graffiti sonori. Travèstiti da fascio di protoni e lànciati nell’anello della luce. Muoviti al ritmo di un crampo acustico-luminoso che non passa. Di un’extrasistole catarifrangente. Dell’acceso-spento di un frullatore di spettri sonori. Imita la scossa di un corto circuito perpetuata all’infinito. Stacca la spina del black out universale, incarna la particella di Dio e disegna sulla rètina del palcoscenico uno scotoma scintillante. Insegui la sua traiettoria senza sbagliare. Metti la retromarcia e gira nel loop di un triplo salto mortale all’indietro. Indugia nella vertiginosa pacatezza e làsciati fulminare dolcemente. Soffia un ultimo respiro nel subwoofer. Lampeggia. Accàsciati nell’anello della luce. Non-hai-più-un-atomo-di-forza. Di te resterà il rombo di un terremoto congelato, la vibrazione del reattore nucleare chiuso nel sarcofago di cemento dopo la catastrofe, collegàti alle casse altoparlanti. Don’t walk away in silence.