… un gruppo guida come EGUMTEATRO da sempre dedito al teatro moderno decide di misurarsi con l’antichità e lo fa in modo del tutto insolito, titolando con ironia Che tragedia! una serie di traduzioni classiche firmate da Edoardo Sanguineti, puntando esclusivamente su brani dei cori e dei messaggeri. A esprimerli con occhi sbarrati e precisi movimenti corporei, precisi fino alle vibrazioni, ci sono quattro ragazzi tra il 24 e i 30 anni… e anche se si sussurra del Dioniso, delle Baccanti, o si grida di Andromaca divenuta schiava, non si smette di parlare di noi, di questa umanità che galleggia nei secoli, grazie ad una comunicazione che scavalca il suono per trasmetterci vibrazioni sensitive. Gran serata con prove da brivido di Lorenzo Gleijeses, Armando Iovino, Andrea Capaldi, Davide Pini Carenzi.
Franco Quadri, La Repubblica
…nonostante il titolo dal sapore ironico, in Che tragedia! Non c’è nulla di divertente: anzi, si può dire, che il progetto elaborato da Lorenzo Gleijeses e dal gruppo EGUMTEATRO sia una sorta di percorso rituale nel dolore, una discesa come in vitro nell’essenza del tragico, enucleata, posta sotto un potente microscopio. È proprio l’intensità fisica della recitazione fa da perno allo spettacolo… i quattro giovani interpreti aggiungono al brusco impatto delle parole una densa orditura di gesti convulsi, ripetitivi, espressioni di un’angoscia senza tempo, assoluta, definitiva.
Renato Palazzi, Il Sole 24 ore
… lode ai due intrepidi registi e, in specie, ai loro quattro attori, tutti bravissimi nella scansione ritmica del testo. Essi sono Lorenzo Gleijeses, Armando Iovino, Andrea Capaldi, Davide Pini Carenzi.
Franco Cordelli, Corriere della Sera
… in Che tragedia! di EGUMTEATRO (in collaborazione con lo Stabile di Calabria), c’è un sottotesto non dichiarato che arriva dall’antica Grecia al Romanticismo… la fisicità dell’attore (Lorenzo Gleijeses per primo), il linguaggio del suo corpo, è il vero linguaggio del teatro… la bellissima scena dell’acqua con due attori che vi si agitano fino ad immergervisi completamente, mentre Gleijeses/Dioniso rievoca compiaciuto il modo in cui ha “violentemente confuso” Penteo (Baccanti).
Renato Nicolini, L’Unità
… i cori e i monologhi dei messaggeri delle tragedie greche, forme di comunicazione intense e traumatiche ma senza enfasi, lucide testimonianze di atrocità incombenti o commesse a distanze dalla scena, sono la congiunta partitura poetica ed emozionale di macchine remote del dolore, sono la drammaturgia a più facce di Che tragedia!
Rodolfo Di Giammarco, La Repubblica
… Davvero una gran bella prova artistica questa, e coraggiosa, da parte di un gruppo giovane e agguerrito come Egumteatro…. I quattro attori corrono, , si affannano, declamano in una prova che a momenti si fa atletica (Fino all’apnea, con momenti di brivido, con risalite dove lo sforzo del raccontare è commovente, appassionante). Come la scena del coro che, in una corsa simultanea, da fermi, restituisce un crescendo ritmico e sonoro dove non conta più tanto la narrazione quanto lo spasmo nervoso, febbrile, parossistico dei coreuti, la corporeità al servizio della parola a dilatarne il senso, a spostare , come a teatro si deve fare, il limite tra senso e suono. E’ raro godere di un tale e assoluto livello di spettacolarità teatrale, che unisce raffinatezza di traduzione, novità di ideazione della regia competenza e generosità attoriale.
Renzia D’inca, Hystrio
di Lorenzo Gleijeses
Ho conosciuto Annalisa e Virgino nel 2006. Dal nostro primo incontro, era chiaro che sia Egumteatro che io fossimo fermamente convinti che la vera scuola di teatro è il palcoscenico; volevamo unirci in un progetto che ci permettesse di vivere il periodo di prove non unicamente come un mezzo per arrivare alla rappresentazione, bensì come fine principale della nostra esperienza insieme. Un processo di prove che fosse anzitutto un processo di crescita e di apprendimento per noi attori: lavorare per arrivare a vie personali di espressione e non adattarci a tempi, modi, usi, costumi, a “standard di produttività” obbligata di un teatro vigente, che sentiamo spesso lontano, estraneo, di cui non condividiamo i criteri…
Dimostrare e dimostrarci che con un budget ridotto, quattro attori tutti al di sotto dei trent’anni, senza puntare su drammaturgie contemporanee, oggi di grido, ma al contrario – tornando alla Tragedia Greca -, con mezzi tecnici volutamente essenziali, può venire alla luce uno spettacolo come Che Tragedia!, rappresentato nelle migliori vetrine italiane (Le Via dei Festival di Roma, Colline Torinesi, Festival MagnaGrecia, che ha collaborato all’allestimento) ed accolto con successo dalla critica italiana.
di Annalisa Bianco e Virgino Lamberti
La Tragedia Greca è morta e seppellita con la cultura greca. Quando Aristotele scrive la sua Arte Poetica, scrive il primo libro sulla storia del teatro. Gli autori citati dal filosofo sono morti e i testi studiati già da tempo sono diventati memoria storica. Aristotele non ha mai visto i debutti dei testi di Eschilo, di Sofocle o di Euripide. Ne ha sentito parlare. Si fida delle descrizioni di altri, coglie il senso di quel gesto artistico e dà vita al primo libro di semiotica teatrale.
Nei secoli successivi molti grandi autori teatrali, innumerevoli scrittori, filosofi e pittori, si sono lasciati influenzare dall’antico “canto del capro” e hanno coltivato il desiderio, l’ambizione e l’utopia di ridare vita allo spettacolo della tragedia greca. Per noi, le parole scritte più di duemila anni fa restano lontane e incomprensibili. Non abbiamo l’illusione di poter fare un viaggio nel tempo a ritroso e nemmeno vogliamo cercare una forzata attualità.
Le parole tragiche scelte sono quelle nella traduzione del poeta Edoardo Sanguineti. L’arte poetica tragica di Sanguineti si presenta ai nostri occhi come emozione musicale, come ineffabile umanità e come stravolgente appello ai sensi del corpo umano. Detto così tutto può sembrare teoria, invece per noi, esiste una violenta concretezza nelle frasi del poeta Sanguineti.
Emozione, Ineffabile, Stravolgimento e Concretezza sono per noi le linee guida per una nostra futura riflessione pratica sulle possibilità del Tragico ai nostri giorni. Non ci interessa tanto il racconto delle disgrazie di Antigone o di Edipo. Ci interessa la discesa negli abissi della sofferenza umana senza nome, senza storia come i quotidiani morti del Darfur, delle strade in Iraq o nei massacri successi in Rwanda. La violenza dei nostri giorni è anonima e le vittime sono corpi senza nome, senza passato, quasi sempre senza una identificazione. Ci accorgiamo della loro esistenza solo quando una bomba li ha uccisi e ha fatto a pezzi i loro corpi. Insomma, i testi tragici non sono un fatto culturale ma un preciso racconto di orrori.
Vogliamo entrare nel labirinto dei testi greci per restarci, per perderci senza cercare una illusoria via d’uscita. Il Tragico come un conflitto senza soluzione. Il Tragico come una macchina di sterminio per l’astuzia della ragione. Il Tragico come antidoto all’indifferenza del dolore altrui.
di Lorenzo Gleijeses
Ho conosciuto Annalisa e Virgino nel 2006. Dal nostro primo incontro, era chiaro che sia Egumteatro che io fossimo fermamente convinti che la vera scuola di teatro è il palcoscenico; volevamo unirci in un progetto che ci permettesse di vivere il periodo di prove non unicamente come un mezzo per arrivare alla rappresentazione, bensì come fine principale della nostra esperienza insieme. Un processo di prove che fosse anzitutto un processo di crescita e di apprendimento per noi attori: lavorare per arrivare a vie personali di espressione e non adattarci a tempi, modi, usi, costumi, a “standard di produttività” obbligata di un teatro vigente, che sentiamo spesso lontano, estraneo, di cui non condividiamo i criteri…
Dimostrare e dimostrarci che con un budget ridotto, quattro attori tutti al di sotto dei trent’anni, senza puntare su drammaturgie contemporanee, oggi di grido, ma al contrario – tornando alla Tragedia Greca -, con mezzi tecnici volutamente essenziali, può venire alla luce uno spettacolo come Che Tragedia!, rappresentato nelle migliori vetrine italiane (Le Via dei Festival di Roma, Colline Torinesi, Festival MagnaGrecia, che ha collaborato all’allestimento) ed accolto con successo dalla critica italiana.
La nostra avventura nel labirinto tragico è vissuta da giovani attori. Nessun pregiudizio anagrafico. Sappiamo che l’aspettativa di vita nell’antica Grecia era di 40 anni. Aldilà della filologia anagrafica, quello che ci interessava era formare un piccolo gruppo di lavoro composto da giovani e realizzare una formazione attoriale come si faceva un tempo, cioè, attraverso la realizzazione di spettacoli. Noi abbiamo avuto una formazione nelle scuole di teatro italiane ma crediamo che un attore debba studiare e contemporaneamente dormire, mangiare, bere, respirare e sognare e soffrire su un palcoscenico, come un pilota che ha bisogno di ore di volo o di un marinaio tanto bisognoso di tempeste e forti venti. Detestiamo le immagini retoriche per parlare di cose concrete e la poetica dell’attore è l’arte concreta di far apparire (poiesis) i morti mai dimenticati perché eternamente ricordarti nelle e dalle parole di un vivo per altri vivi. Ecco, forse questo è il principio che ci ha guidato nel labirinto tragico: resuscitare i morti per scoprirci vivi. Mah…come vedete non è così originale, questo era il canto del capro.
Egumteatro
Annalisa Bianco e Virginio Liberti danno vita alla compagnia Egumteatro nel 1994 a Milano. Nel 1998 si trasferiscono nella provincia di Siena dove iniziano un’intensa attività sul territorio. Egumteatro crea un premio di drammaturgia, tiene seminari per attori professionisti, realizza spettacoli con gruppi dialettali, con gli allievi delle scuole elementari e con gli ex lungo-degenti dei servizi psichiatrici. Nella serie editoriale intitolata I Quaderni di Teatro raccoglie interviste inedite ad importanti registi europei. Dal 2002 cura la direzione artistica di Amiata Festival, festival di arti popolari che si svolge in agosto nei Comuni dell’Amiata senese. La compagnia ha vinto il Premio Speciale UBU Giuseppe Bartolucci nel 1998. Tra gli spettacoli più recenti realizzati dal gruppo ricordiamo: Quartett da “Le relazioni pericolose di Laclos” (2002) e Hamletmachine di Heiner Muller (2004), Loretta Strong (2004) e L’omosessuale o la difficoltà di esprimersi (2006) di Copi. Hamletmachine e Loretta Strong sono stati presentati al Festival delle Colline Torinesi rispettivamente nel 2004 e nel 2005. Un anno con 13 lune tratto dall’omonimo film di Fassbinder ha debuttato nel 2007 proprio al Festival delle Colline, è ancora in tournée in Italia ed è valso al protagonista, l’attore torinese Michele Di Mauro, la candidatura a miglior attore ai Premi Ubu 2007.
RASSEGNA STAMPA
Sono tragedie antiche ma parlano di noi di Franco Quadri
Un gruppo guida come Egumteatro da sempre dedito al teatro moderno decide di misurasi con l’antichità e lo fa in modo del tutto insolito, titolando con ironia Che tragedia! Una serie di traduzioni classiche firmate da Edoardo Sanguineti, puntando esclusivamente su brani dei cori o dei messaggeri. A esprimerli con occhi sbarrati e precisi movimenti corporei, precisi fino alla vibrazione, ci sono quattro ragazzi tra i 24 e i 30 anni, scelti e pilotati col rigore di sempre da Virginio Liberti e Annalisa Bianco, che gli hanno demandato la prima scelta dei testi, monologhi da dire a volte all’unisono, sottovoce o urlando, in antiche tuniche che presto lasciano il posto ad abiti d’oggi, sotto occhiali o copricapi, in un nevrotico attraversamento di secoli e luoghi. Infatti i cassoni coperti usati dapprima come pulpiti, davanti alle poche file di sedie disposte per il pubblico, vengono presto scoperti per designare tombe e tolde, col fondo acqueo di un mare dove tuffarsi o da solcare armati da lignei timoni o lunghi remi bianchi. E anche se si sussurra del Dionisio delle Baccanti o si grida di Andromaca divenuta schiava, non si smette di parlare di noi, di questa umanità che galleggia nei secoli grazie a una comunicazione che scavalca il suono per trasmetterci vibrazioni sensitive con sarcasmo che ferisce come l’invettiva finale contro la donna dell’Ippolito secondo Seneca in veste papale. Gran serata con prove da brivido di Lorenzo Gleijeses, Armando Iovino, Andrea Capaldi, Davide Pini Carenzi.
Tragedia in mezzo all'acqua di Renato Nicolini
In Che tragedia!, di Egumteatro (in collaborazione con lo stabile di Calabria), c’è un sottotesto non dichiarato che arriva dall’antica Grecia al Romanticismo. Il Lenz di Buchner (poi di Deleuze e Guattari nell’Antiedipo), che, abbracciando l’acqua al termine di un solitario viaggio tra i boschi, rompe la barriera tra organico ed inorganico. Dando inizio così alla riflessione moderna sulla corporeità della ragione. Una modernità su cui il passato mitico pre greco, il tempo della Grande Madre, del matriarcato, proietta la sua ombra. La fisicità dell’attore (Lorenzo Gleijeses per primo, Andrea Capaldi, Armando Jovine, Davide Pini Carenzi), il linguaggio del suo corpo, è il vero linguaggio del teatro. I versi della tragedia greca, nella traduzione di Edoardo Sanguineti, diventano frammenti, intermittenze: che mostrano fatica nel rivelare il proprio senso al pubblico di oggi. Come, dato il nome del gruppo, una divinità brasiliana potrebbe intendere l’Olimpo. Di origine brasiliane è Virginio Liberti (regista con la collaborazione di Annalisa Bianco). Gli attori attendono l’entrata in sala del pubblico sotto quattro lenzuoli. Si rivelano urlando come nella nascita Si presentano come androgini, giacca su gonna e collant. Ciò su cui erano sdraiati si rivelano quattro teche di vetro, due vasche d’acqua, mentre le estreme contengono lumini votivi, elmi e libri. Un albero. Una sorta di vela. Una fila di lampadine. Le parole evocano l’odio mortale tra Eteocle e Polinice, come se l’odio fra fratelli fosse la dimensione più evidente della tragedia contemporanea. L’odio deforma la sapienza: “Che cos’è la sapienza? Cosa c’è di più bello che premere con la mano sulla testa del nemico?”. “Fortunato chi sfugge al mare in tempesta!”. E’ a questo punto che ci viene mostrata la bellissima scena dell’acqua, con due attori che vi si agitano fino ad immergersi completamente, e faticano visibilmente a sottrarsene. Mentre Gleijeses/Dionisio rievoca compiaciuto il modo in cui ha “violentemente confuso” Penteo (Baccanti). Conclude il monologo dell’Ippolito di Euripide, rivelatore della misoginia che chiude per sempre il tempo del matriarcato, in cui uomini, animali e pietre potevano confondersi tra di loro nel gioco divino della creazione. “Chi guida verso il male è la donna / per i suoi mostruosi adulteri”. E’ nata la società patriarcale, Pasifae non si accoppi più col toro solare, manifestazione divina, ma con una bestia.
Discesa tragica con la cravatta di Renato Palazzi
Nonostante il titolo dal sapore ironico – che tuttavia si riferisce probabilmente, più che ai contenuti dello spettacolo, alla nostra incapacità di commuoverci per i mali del mondo – in Che tragedia! Non c’è nulla di divertente: anzi, si può dire che il progetto elaborato da Lorenzo Gleijeses e dal gruppo Egumteatro sia una sorta di percorso rituale nel dolore, una discesa come in vitro nell’essenza del tragico, enucleata, posta sotto un potente microscopio. Ma, appunto, partendo dall’idea che la tragedia in sé abbia smarrito il proprio senso. I registi Annalisa Bianco e Virginio Liberti, che con questa operazione sperimentavano il loro approccio alle Troiane, poi allestite al festival di Napoli, sostengono infatti che la più alta espressione del teatro dell’antica Grecia sia un patrimonio ormai perduto, lontano nei secoli, legato a una civiltà scomparsa della quale non possiamo più comprendere i valori. E dunque, per cercarvi riferimenti alle grandi catastrofi di oggi, concentrano in una breve azione una serie di frammenti tragici, come i residui di una totalità smarrita. Il testo è costruito su spezzoni dei Sette contro Tebe di Eschilo, della Fedra di Seneca, delle Baccanti e delle Troiane di Euripide. Ad accomunarli, oltre alla serrata traduzione di Edoardo Sanguineti, sono due elementi: il fatto che si tratta di immagini di sofferenze e di morte riproposte fuori da una trama definita, senza neppure dei chiari riferimenti ai personaggi che le patiscono. E che siano in prevalenza brani tratti da cori o da resoconti di messaggeri e testimoni, dunque di avvenimenti detti, enunciati, riferiti e non vissuti direttamente alla ribalta. La scena stessa sembra eludere ogni richiamo a vicende specifiche: essa infatti si riduce a una serie di ceri accesi sullo sfondo, e a una pedana di legno grezzo che taglia tutto il palco trasformandosi, grazie a un telo issato su una pertica e a una fila di lampadine, in una sorta di metaforica barca infernale: a un certo punto vengono tolte le assi che la coprono, svelando sotto due teche con dentro elmi e libri e altre due teche piene d’acqua, in cui un attore si cala completamente vestito, continuando a recitare fino quasi alle soglie dell’annegamento. E’ proprio l’intensità fisica della recitazione fa da perno allo spettacolo – visto all’Out Off di Milano – compensando un certo andamento un po’ caotico dell’impianto drammaturgico. Indossando giacche grigie che rimandano a guerre e violenze di oggi, con pantaloni o gonne uguali, a seconda che incarnino figure maschili o femminili, i quattro giovani interpreti aggiungono al brusco impatto delle parole una densa orditura di gesti convulsi, ripetitivi, espressioni di un’angoscia senza tempo, assoluta, definitiva.
Al Nuovo studio sul classico senza eroi di Stefano de Stefano
A lezione di classico. Non siamo in un liceo, ma sulle tavole del Teatro Nuovo, dove quattro giovani attori guidati da Annalisa Bianco e Virginio Liberti, i registi di Egumteatro, costruiscono uno “studio” sintetico e denso. “Che tragedia”, a Napoli fino a domenica, si presenta infatti come un percorso veloce (dura solo 50 minuti) nell’accidentato sentiero di quattro opere particolarmente cruente come “Le Baccanti” e “Le Troiane” di Euripide, “I Sette contro Tebe” di Eschilo, la “Fedra” di Seneca, da cui i protagonisti Lorenzo Gleijeses, Andrea Capaldi, Armando Iovino, Davide Pini Carenzi, scelgono vari stracci tradotti poeticamente da Edoardo Sanguineti e cuciti insieme da un filo rosso, l’inattualità dell'”eroico” e l’assoluta attualità del dramma letale, collettivo e anonimo. Non un singolo testo quindi, ma una riflessione sul senso del tragico, restituito da un felice ed essenziale allestimento scenico: una lunga teoria di casse su cui sono sistemati inizialmente quattro corpi coperti da un velo. Gli stessi che riacquisteranno vita, mentre i legni si trasformeranno in vasche d’acqua catartiche in cui si caleranno gli attori e in bacheche in cui conservare il senso della propria identità. Il tutto restituito da uno spartito emozionale, costruito grazie ad un incessante uso del proprio corpo, ad una fisicità dai ritmi ferratissimi che si fa centro motore dell’intero allestimento. Come il napoletano Gleijeses ha imparato molto bene, a partire dalle sue precedenti esperienze nel cosiddetto “terzo teatro” di Eugenio Barba e Julia Varley.
Il mondo di oggi? 'Che tragedia!'di Franco De Ciuceis
Ai lati del palco due teche di vetro mostrano libri che riportano sul dorso, con i caratteri dell’alfabeto greco, i nomi antichi dei poeti tragici, Euripide, Sofocle, assieme agli elmi degli eroi guerrieri. Reperti sparsi alla rinfusa, su un piano polveroso, quasi a voler prendere le distanze da un tempo lontano, relegato nel ripostiglio della memoria. E’ uno dei segni che presiedono allo spettacolo “Che tragedia”, presentato al Nuovo dal Teatro Stabile di Calabria. Un progetto di Lorenzo Gleijeses e Egumteatro, per la regia di Annalisa Bianco e Virginio Liberti. La messinscena si fonda su una premessa perentoria: la tragedia greca è morta, le parole scritte più di duemila anni fa restano immobili in un passato letterario e mitologico. Ma quel punto esclamativo apposto come icastica postilla al titolo, è ambivalente, apre altri spiragli. Non vuole essere un riduttivo abbandono del tragico, ma un grido che rimanda ad angosce del nostro tempo. La tragedia antica assunta per esprimere, attraverso il dolore, il tema perenne dei lutti e degli orrori di tutte le guerre, i genocidi, le violenze che riversano ragioni di acuta sofferenza nelle relazioni umane. Il racconto scenico non privilegia singole individualità, personaggi eponimi, ma da “Le Beccanti”, “I sette a Tebe”, “Fedra”, “Le Troiane”, sono stati scelti brani dei cori e dei messaggeri, cioè le voci di popolo, della comunità sociale, delle cerchie familiari colpite. Figure collettive, testimoni e narratori di eventi che intrecciano capricci del Fato e follia degli uomini. A sottolineare che la violenza dei nostri giorni è spesso anonima, le vittime corpi senza nome, senza passato, privati del futuro. Ci accorgiamo della loro esistenza quando la tragedia si è compiuta. Lo spettacolo è ricco di suggestioni, nella sua nuda essenzialità. Lo spazio disegnato da Rita Bucchi offre agli attori appena un praticabile di legno e alcuni allusivi elementi scenici: quanto basta a Lorenzo Gleijeses e Andrea Capaldi, Armando Iovino, Davide Pini Carenzi, per restituire all’attualità la sostanza del Tragico senza tempo e senza confini. Con la passione della voce, con le emozioni offerte dalla severa traduzione di Edoardo Sanguineti. Con l’intensa fisicità che esprime la violenta concretezza dei loro corpi. Il Tragico come conflitto senza soluzione. E come antidoto all’indifferenza che nega i valori della ragione e della umana pietas.
Andromaca piange ed è subito tragedia di Franco Cordelli
Come spesso negli spettacoli di Egumteatro, vale a dire di Annalisa Bianco e Virginio Liberti, l’elemento fantastico tende a prevalere, se non a straripare In “Che tragedia!”, in scena alla Sala Uno per Le vie dei festival, tale elemento è scenografico: esso segna, dello spettacolo, il buono e il meno buono. “Che tragedia”, prodotto dallo stabile di Calabria, proviene dal festival Magna Grecia, un’imponente rassegna di tragedia greche ideata da Giancarlo Cauteruccio nello scorso mese di luglio, in svariati siti archeologici di Calabria e Lucania. Biano – Liberti hanno scelto di non allestire una tragedia,ma di cogliere il senso del tragico, il tragico di ieri per il tragico di oggi, collegando i cori e i monologhi dei messaggeri. Ebbene, in questa idea, già di per sé abbastanza bizzarra, l’elemento più di tutti bizzarro, è quello scenografico: bizzarro e bello. Dapprima la scena è tagliata in due, o mascherata, da una lunga pedana di legno, su cui viene recitato il primo monologo, di Andromaca sulle spoglie di Ettore. Poi, il colpo ad effetto: la pedana, parzialmente smontata, si trasforma in un vero e proprio testo onirico. Ai due estremi vi sono elementi da museo, o che fanno pensare ad un museo: due teche, con dentro un elmo, dei lumini, un libro antico…Sopra un’ala della pedana viene issato l’albero di una nave, con la vela, e sulla vela una luminaria, che scende verso sinistra. Al centro si aprono due vasche che s’immaginano sacrificali, ma che potrebbero essere, ellitticamente, il mare…In questo liquido amniotico-marino si sviluppa un’azione ancestrale, rituale, magica. Al primo monologo, ne succedono altri quattro. Il secondo è lancinante , ma è quello che segna i limiti dell’impresa dei due registi. L’attore destinato al sacrificio, ovvero l’oggetto tragico (che ne è tuttavia il soggetto), cade tutto vestito in acqua, sembra destinato all’annegamento, sembra non possa più uscire dalle acque in cui è immerso, infine ne esce e declama la sua sventura. Poi ricade, poi di nuovo esce e smozzica una frase, e di nuovo è sul punto di annegare e sempre riesce a dire. Questa è la scena più intensa e illustra magnificamente la volontà spettacolare di Bianco-Liberti e, nello stesso tempo, come essa si identifichi con l’estremo, un estremo che per loro è il sorprendente. Ecco, i limiti dell’azione sono in questa volontà di sorprendere. A lungo andare non ci si sorprende più. Quando, nell’ultimo pezzo, i quattro corrono su se stessi, non possiamo non pensare a quante volte siamo stati per così dire sorpresi da questo movimento. E’ un’azione che segna una troppo evidente frattura tra ciò che viene detto e ciò che viene rappresentato: in quella frattura l’elemento arbitrario diventa preponderante. Lode comunque ai due intrepidi registi e, in specie, ai loro quattro attori, tutti bravissimi nella scansione ritmica del testo. Essi sono Lorenzo Gleijeses, Andrea Capaldi, Armando Iovino e Davide Pini Carenzi.
Tragedia in apnea di Renzia D'Inca
Davvero una gran bella prova artistica questa, e coraggiosa, da parte di un gruppo giovane e agguerrito come Egumteatro che ha affrontato la non facile prova di cimentarsi con testi classici o meglio con brani di tragedie greche affidati esclusivamente ai messaggeri e ai cori, impersonati da quattro straordinariamente attori. I testi, nella traduzione di Edoardo Sanguineti, sono scelti e tessuti secondo una trama incalzante e che non lascia mai spazio a cadute di ritmo e di magica contiguità fra nessi testuali e azioni. Si tratta del Dionisio delle Baccanti, della Andromaca ridotta a schiava, dell’Ippolito nella versione di Seneca, in un’invettiva del finale contro la donna, affidata a una figura potente, vestita da papa. I monologhi sono ora urlati ora sussurrati, ora detti insieme in funzione corale, ora in assoli, e interessante è la costruzione delle scene che via via si succedono che vedono trasformarsi i quattro attori (fra i 24 e i 30 anni) in antichi adorni di tuniche, e poi in contemporanei in completo nero e occhialoni da sole, mentre le casse disposte a terra da praticabili si mutano in acquari o meglio in oceani da solcare armati di remi o dove affogare oppure in tombe. In quattro corrono, si affannano,declamano in una prova che a momenti si atletica (fino all’apnea, con momenti di brivido, con risalite dove lo sforzo del “raccontare” è commovente, appassionante). Come la scena del coro che, in una corsa simultanea, da fermi, restituisce un crescendo ritmo e sonoro dove non conta più tanto la narrazione quanto lo spasmo nervoso, febbrile, parossistico dei coreuti, la corporeità al servizio della parola a dilatarne il senso, a spostare, come a teatro si deve fare, il limite tra senso e suono. E’ raro godere di un tale e assoluto livello di spettacolarità teatrale, che unisce raffinatezza di traduzione, novità di ideazione della regia, competenza e generosità attoriale.
Teatro di ricerca e di qualità all'OutOff: i greci siamo noi! Maddalena Peluso
Parole scritte oltre duemila anni: per capire chi eravamo e chi siamo diventati scegliendo il tragico “come un conflitto senza soluzione. Il tragico come una macchina di sterminio per l’astuzia della ragione. Il tragico come antidoto all’indifferenza del dolore altrui”. E’ in scena all’OutOff di via MacMahon il progetto di Lorenzo Gleijeses e della compagnia milanese Egumteatro “Che tragedia!” tradotto da testi greci da Edoardo Sanguineti, enfant terribile fondatore del Gruppo ’63, con un ottimo quartetto di attori: Andrea Capaldi, Armando Iovino, Davide Pini Carenzi e naturalmente il talentuoso e giovane Gleijeses, figlio di Geppy. E se il padre, ultimo allievo di Edoardo De Filippo, è stato definito dalla critica teatrale “il migliore attore napoletano della sua generazione”, il figlio Lorenzo è senza dubbio uno dei migliori attori italiani dalla sua generazione. Tra un po’ l’Italia se ne renderà conto e si spera che Gleijeses prosegua comunque il suo cammino con il teatro di ricerca. Il progetto “Che tragedia!” colpisce, affascina e appassiona il pubblico: al suo ingresso il proscenio è già aperto e quattro salme giacciono al centro della scena. “Un teatro – spiegava Eugenio Barba, fondatore dell’Odin Teatret – non può giustificare la sua esistenza se non è cosciente della sua missione sociale”. Ed è così che l’opera messa in scena all’Out Off “si presenta ai nostri occhi come emozione musicale, come ineffabile umanità e come stravolgente appello ai sensi del corpo umano”. “Nei secoli successivi – spiegano i registi, fondatori di EgumTeatro, Annalisa Bianco e Virgilio Liberti – molti grandi autori teatrali, innumerevoli scrittori, filosofi e pittori, si sono lasciati influenzare dall’antico “canto del capro” e hanno coltivato il desiderio, l’ambizione e l’utopia di ridare vita allo spettacolo della tragedia greca. Per noi, le parole scritte più di duemila anni fa restano lontane e incomprensibili…Non ci interessa tanto il racconto delle disgrazie di Antigone o di Edipo. Ci interessa la discesa negli abissi della sofferenza umana senza nome, senza storia come i quotidiani morti del Darfur, delle strade in Iraq o nei massacri successi in Rwanda. La violenza dei nostri giorni è anonima e le vittime sono corpi senza nome, senza passato, quasi sempre senza una identificazione..”. Davvero notevole la ricerca e l’approfondimento sul lavoro dell’attore, caratteristica del Terzo Teatro. La scansione ritmica del testo e i movimenti corporei dei quattro attori sono precisi e puntuali: corrono, cadono, si affannano, declamano in una prova che a momenti si fa atletica, fino all’apnea, in una vasca colpa d’acqua. Spettacolare e raffinata la scena finale in cui il coro, in una corsa simultanea, da fermi, “restituisce – spiega Hystrio – un crescendo ritmico e sonoro dove non conta più tanto la narrazione quanto lo spasmo nervoso, febbrile, parossistico dei coreuti, la corporeità al servizio della parola a dilatarne il senso, a spostare, come a teatro si deve fare, il limite tra senso e suono”.
''CHE TRAGEDIA!'', Il teatro trasversale
Al nuovo teatro nuovo di Napoli in scena il Progetto teatrale di Lorenzo Gleijeses ed Egumteatro dal 13 al 18 gennaio 2009
Sipario spalancato, quattro corpi inguainati in teli bianchi, distesi su una lunga pedana, suono, e luci basse. Così si presenta agli spettatori “Che Tragedia”. Un Progetto teatrale di Lorenzo Gleijeses ed Egumteatro tratto dai testi Greci tradotti dal poeta Edoardo Sanguineti.
Sin da subito si ha la sensazione di trovarsi dinanzi ad una scelta particolare e trasversale. Il lavoro, diretto da Annalisa Bianco e Virginio Liberti, è una riflessione sui testi della classicità che parte da quelle parole lontane e spesso sconosciute, per scavare nelle tragedie della nostra quotidianità, anonime e ignorate. La tragicità dell’esistenza umana viene rimodulata e tratteggiata, attraverso quattro monologhi che potrebbero sembrare lontani, inutili e pretestuosi, ma che a ben vedere sono inesorabilmente ancorati alla quotidianità umana, vivono dentro la natura umana, sempre uguale a se stessa, sempre orribilmente attuale.
Quattro corpi che si dibattono, urlano, si straziano in spasmi di vita, facendo a brandelli un esistenza incongrua, desolata, asfissiante. Il tutto, calato nelle bellissime scenografie di Rita Bucchi, che riesce a distribuire lo spazio scenico in maniera straordinariamente dinamico, colpendo per la estrema funzionalità, e perfettamente sottolineato dai suoni di Otto Rankerlott, forti, precisi e concreti.
Lorenzo Gleijeses, Andrea Capaldi, Armando Iovino e Davide Pini Carenzi sono quattro giovani attori sotto la trentina, che tirano fuori da se stessi una recitazione ammaliante e corrosiva, che attraverso esatti movimenti del corpo, sbalorditive espressioni facciali e una precisa scansione ritmica del testo, decostruiscono i classici ridonando loro nuova vita, una nuova energia, portando lo spettatore a due passi dal baratro.
Alla fine ci si sente storditi e incapaci al movimento, ma felici e soddisfatti, perché se il teatro non è sudore, fatica, rabbia, dissoluzione nel personaggio, ricerca, innovazione, resta un inutile adattamento a certi standard produttivi, un inutile esercizio di stile, incapace di scuotere dal torpore le menti e i corpi. Insomma un gran bel lavoro, concreto e mai retorico. Fatevi un piacere, correte a vederlo.
LINK
www.hystrio.it
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