Corcovado

CORCOVADO
una performance di Luigi De Angelis e Michele Di Stefano

con Lorenzo Gleijeses
e con Manolo Muoio

coreografia Michele Di Stefano
regia, scene Luigi De Angelis

cura del corpo Biagio Caravano
movimenti di scena Giovanni Cavalcoli
fonico Claudio Attonito
consulenza hardware Damiano Meacci
consulenza oggetti di scena Maria Alberta Navello
realizzazione scenotecnica Fratelli Giustiniani

Produzione: Compagnia Körper/Gitiesse Artisti Riuniti

English Version

 

 

Una performance che rievoca la dimensione nostalgica e spaesante del viaggio, immaginando un non-luogo per eccellenza dell’arrivo e dell’attesa. In scena Lorenzo Gleijeses e Manolo Muoio diretti da Luigi De Angelis e Michele Di Stefano; produzione Körper e Gitiesse Artisti riuniti.

Corcovado è una performance, frutto di un lavoro di ricerca e esplorazione condiviso da Lorenzo Gleijeses con Luigi De Angelis e Michele Di Stefano che ne hanno curato la regia e la coreografia traendo ispirazione dalla dimensione antropologica del viaggio e dal desiderio nostalgico di un “Altrove”, ricostruendo un non-luogo per eccellenza: la sala di consegna bagagli di un “qualche” aeroporto del mondo. Uno spazio dell’attesa, dell’arrivo e del passaggio, dell’anonimato e dell’incontro fugace, della relazione con un presente connesso con mondi esotici lontani. Un luogo-bilico, di confine, di porta interstiziale a partire dal concetto di dromoscopia.
Luigi De Angelis e Michele Di Stefano sollecitati da Lorenzo Gleijeses (ideatore del progetto 58° Parallelo) hanno fatto proprio, rendendolo situazione scenica, il concetto di spaesamento che sta alla base della dromoscopia – parola coniata dal filosofo Paul Virilio – partendo dalle sue riflessioni sull’odierna idea di viaggio, che ha fagocitato l’antica idea di esplorazione e di percorso in favore dell’idea di spostamento rapido, quasi istantaneo. “Prendete un treno disposto parallelamente a un altro treno immobile: seduti all’interno di uno dei due convogli noi, spesso, non riusciamo a capire quale si stia muovendo”. Questa sensazione, secondo Virilio, è un esempio di dromoscopia.

La messa in scena vede Lorenzo Glejieses (attore e performer) al centro di un agone vertiginoso, dove il corpo e il gesto coreografico diventano oggetto in mostra tra i tanti oggetti presenti sulla scena, proiezioni del desiderio e di un sogno altrui: tracce, memorie, scarti, nella teoria parossistica di una macchina dello sguardo che tutto consuma e riduce, in un andirivieni ossessivo, micidiale, epifanico di “cose-gesti”, “cose-oggetti”, “cose-corpo”, in cui non sia possibile arrivare mai a un approdo consolatorio. Controparte e artefice del sogno: la presenza costante di una figura di guardiano silente (Manolo Muoio, attore e performer), custode amoroso del luogo, suo genius loci segreto, che ne cura e attende le molteplici epifanie.

Se nella contemporaneità iperveloce gli unici elementi del viaggio a sopravvivere sono la partenza e l’arrivo, CORCOVADO riposiziona lo sguardo sui concetti di “percorso” ed “esplorazione”, demandando al processo stesso il tarlo imprescindibile del senso e della forma. Una pratica che è allo stesso tempo di decostruzione e ricostruzione del processo creativo, occasione speciale di affondo sulla possibilità della mutazione dello sguardo e sulla sua carica immaginale. Al centro di Corcovado: il desiderio spudorato di abbandono al farsi “cosa” tra le “cose”, alla vertigine centrifuga e alla distopia dell’instabilità dello sguardo mutevole.

Corcovado fa parte, assieme a Una giornata qualunque del danzatore Gregorio Samsa, del progetto 58°Parallelo Nord, a cura di Lorenzo Gleijeses.
Il progetto, cominciato nella primavera del 2015, con alcune finestre di preparazione e studio (presentate anche nell’ambito di alcuni festival tra cui il NTF di Napoli ) ha riunito, in una sorta di “cantiere teatrale aperto”, Eugenio Barba e Julia Varley (Odin Theatret) Luigi De Angelis e Chiara Lagani (Fanny & Alexander), Michele Di Stefano e Biagio Caravano (MK), chiamati a intervenire attivamente in sessioni separate su alcuni materiali performativi proposti da Lorenzo Gleijeses e dal musicista Mirto Baliani. Da questa fase di esplorazione sono nati due progetti produttivi autonomi: Una giornata qualunque del danzatore Gregorio Samsa prima creazione di Eugenio Barba (in co\regia con Lorenzo Gleijeses) fuori dall’Odin Theatret, in tournée in questa stagione e Corcovado diretto da Luigi De Angelis e Michele Di Stefano.

***

Luigi De Angelis è nato a Bruxelles nel 1974. È regista, scenografo, light-designer, musicista.
Nel 1992, assieme a Chiara Lagani, ha fondato la compagnia Fanny & Alexander. Gli spettacoli di Fanny & Alexander sono stati rappresentati in Italia e all’estero nei più importanti festival e rassegne internazionali. Nel maggio 2015 ha diretto Il Flauto Magico di Wolfgang Amadeus Mozart al Teatro Comunale di Bologna, di cui ha curato anche scene e luci. In Belgio, nel marzo 2017, cura l’ideazione, la regia, le luci dello spettacolo Serge, ispirato alla vita dell’impresario russo Sergei Diaghilev, col Solistenensemble Kaleidoskop di Berlino (una commissione del Klarafestival, in coproduzione col Concertgebouw di Bruges e deSingel di Anversa) poi ripreso a Berlino nel novembre del 2018 e in Italia al Romaeuropa Festival 2018. Nell’agosto 2017 cura la regia, scene e luci di una particolare versione di L’Orfeo di Monteverdi, Orfeo Vaiajero, ad Anversa, a deSingel, con un gruppo di giovani solisti e musicisti della Summer School di Muziek Theater Transparant, diretti dal direttore argentino Hernan Schvartzman. Lo stesso progetto è stato ripreso per l’apertura del Festival Monteverdi nel 2019, al Teatro Ponchielli di Cremona. Per Fanny & Alexander ha curato regia, musiche, scene e luci di un progetto biennale sulla tetralogia di Elena Ferrante L’Amica Geniale, con Fiorenza Menni e Chiara Lagani, presentato al Napoli Teatro Festival e Ravenna Festival nell’estate 2018. Dal 2018 ha curato la regia e l’allestimento del progetto Se questo è Levi, Premio Speciale Ubu2019 e Premio Ubu2019 come Miglior Attore Under 35 al protagonista, Andrea Argentieri.

Michele Di Stefano, coreografo e performer, dopo gli studi universitari ha attraversato la scena musicale punk-new wave degli anni Ottanta per approdare ad un progetto autodidatta di ricerca corporea fondando il gruppo MK, insieme a Biagio Caravano.  Il gruppo è ospitato nei più importanti festival della nuova scena e nel 2020 è tra le compagnie residenti del Teatro India di Roma per il progetto Oceano Indiano.
MK si occupa di performance, coreografia e ricerca sonora. Tra le produzioni piu recenti: Robinson e Parete Nord, con il musicista Lorenzo Bianchi Hoesch, e Bermudas (Premio Danza&Danza 2018): Il gruppo produce poi formati ambientali ed installativi, come Veduta, dedicato alla visione prospettica della città e Pezzi anatomici, coprodotto dal Teatro di Roma.
Tra le numerose committenze: Aterballetto, la Korean National Contemporary Dance Company, RIC.CI (Reconstruction Italian Contemporary Choreography), la Scuola Paolo Grassi di Milano e la Biennale di Venezia.  Nel 2012 esce per i tipi di Quodlibet, Agenti autonomi e sistemi multiagente, di Michele Di Stefano e Margherita Morgantin, un testo di istruzioni coreografiche e report meteorologici.
Nel 2014 la Biennale Danza di Venezia assegna a Michele Di Stefano il Leone d’argento per la Danza. La performance Bermudas_forever è premio Ubu2019, come miglior spettacolo di danza.

Lorenzo Gleijeses attore, regista e performer debutta in teatro nel 1991 con il padre Geppy e con Regina Bianchi e giovanissimo lavora con Squarzina, Pugliese, Guicciardini. La sua formazione è legata a maestri internazionali come Lindsay Kemp, Eimuntas Nekrosius, Yoshi Oida, Eugenio Barba, il Workcenter di Jerzy Grotowski, Augusto Omolù, Michele Di Stefano/MK. In teatro ha lavorato con Nikolaj Karpov, Julia Varley dell’Odin Teatret (per Il figlio di Gertrude, è Premio Ubu2006 come Nuovo Attore e nomination ai premi Olimpici del Teatro\E.T.I. 2006) e ancora con Mario Martone, Egumteatro, Cesare Lievi, Rafael Spregelburd, Emiliano Bronzino, Fanny & Alexander, Alfredo Arias, Andrej Konchalovski, Eugenio Barba. Nelle sue creazioni ha coinvolto, tra gli altri Ivo Dimchev, Zapruder Filmakersgroup, Antonio Rezza e Flavia Mastrella, Renato Nicolini e Marilù Prati, Kinkaleri. Ha diretto laboratori e stage in diverse Università e centri teatrali come il DAMS di Bologna e di Torino, il Teatro di Roma, il Teatro Stabile di Napoli, il Teatro Stabile di Calabria. Dal 2009 al 2011 è stato ideatore e direttore artistico di Quirino Revolution MAD, festival internazionale che ha aperto lo storico teatro romano all’innovazione e alla sperimentazione. È ideatore del progetto 58°Parallelo Nord, da cui sono nati Corcovado e Una giornata qualunque del danzatore Gregorio Samsa realizzato in co\regia con Eugenio Barba e in tournée nella primavera 2020.
Al cinema è protagonista nel film Gabriele al fianco di Mario Scaccia (2000); nel 2009 con Kim Rossi Stuart e Filippo Timi è in Vallanzasca, gli angeli del male, regia di Michele Placido ed è co-protagonista al fianco di Gabriele Lavia e Laura Chiatti nel film Iago. Nel 2013 partecipa al Il giovane favoloso di Mario Martone. Nel 2017 prende parte a I due soldati di Marco Tullio Giordana ed è uno degli interpreti principali di Il primo re di Matteo Rovere.

 

Anna Bandettini – 23 AGOSTO 2021

Corcovado, personaggi e storie di viaggi sul tapis roulant tra bagagli e sogni

Lo stravagante spettacolo del trio Di Stefano-De Angelis-Gleijeses in scena il 27 agosto a Bassano del Grappa per il festival Opera Estate-B/Motion

Credevamo che ci sarebbe stata un’invasione di prosa dopo i mesi di lockdown e invece, da Santarcangelo a Dro e ai festival di Venezia, il “genere” dominante dell’estate teatrale è stata la performance; (un “corpo in azione” se prendiamo alla larga la definizione del maggiore teorico, Richard Schechner). Se n’è viste di diversi tipi e stili, tra attivismo, arte astratta, danza, tra provocazioni e sperimentazioni, molte deludenti, approssimative, da sembrare delle macchiette (chi si ricorda la stupenda Virginia Raffaele nella parodia di Marina Abramovic, che ossessivamente a ogni gesto ripeteva peffomans).
Ma le eccezioni ci sono e tra queste c’è Corcovado che, dopo l’anteprima alla Triennale di Milano, si vedrà il 27 a Bassano del Grappa, nella Chiesa di San Giovanni, per il festival Opera Estate-B/Motion. Si tratta di una installazione-performance, interessante anche perché nasce dal lavoro condiviso di tre artisti che hanno ognuno un proprio pedigree ma qui hanno voluto sperimentare un progetto comune mettendo in gioco ciascuno la propria specialità Michele Di Stefano, il fondatore della
compagnia Mk, come coreografo, Luigi De Angelis di Fanny e Alexander come regista e l’attore Lorenzo Gleijeses in qualità di performer, e il quale, sempre a Bassano ma il 25, presenta anche l’altro suo lavoro, Una giornata qualunque del danzatore Gregorio Samsa,  con  la firma di un “maestro” come Eugenio Barba e altra tappa del progetto 58° Parallelo Nord.

 In Corcovado gli spettatori sono davanti a uno dei classici tappeti della consegna-bagagli degli aeroporti.
Quando il tapis roulant si avvia, scorre una valigia, poi un’altra e un’altra. Via via, però, il tappeto rotante inizia a sfornare anche oggetti: palle da biliardo, cappelli, ombrelli, costumi, borsette. E persone: uno sciatore, un bagnante, uno sciamano. L’effetto, per chi guarda, è come se le valigie si fossero aperte, spargendo sul carrello i souvenir, quel che resta del viaggio.
Colpisce, oltre l’impianto scenico d’effetto, e un notevole sound design, che Di Stefano-De Angelis- Gleijeses non si sono limitati all’idea, come succede nella maggior parte delle performance, ma l’hanno sviluppata e in modo anche imprevedibile, divertente, ironico, non banale. In quegli oggetti che, sotto l’occhio vigile del guardiano (Manolo Muoio), scorrono sul tapis roulant, spesso ammucchiandosi disordinatamente, e in quegli strani personaggi che appaiono in posizioni e azioni un po’ assurde, c’è l’idea del viaggio come ricordo, consumo, spaesamento, nostalgia, come luogo in cui le tracce e le memorie conservino un loro vissuto e realizzare sogni.
Al limite della stravaganza, lontano da qualunque esagerazione di senso, Corcovado ha uno dei suoi punti di forza proprio nella performance di Lorenzo Gleijeses (figlio d’arte, suo padre è l’attore e regista Geppy), un attore che lavora in modo preminente col corpo (è il tipo di lavoro che più mi attrae e stimola, ha raccontato): scorre sul tapis roulant insieme agli oggetti in diverse interpretazioni, e si muove, anche nei momenti di maggiore fatica, con atleticità acrobatica e una tale naturalezza da dare alla performance anche il carattere di un gioco.

 

Gian Maria Tosatti – 11 FEBBRAIO 2020

La civiltà degli androni
Una riflessione su Corcovado, e sull’odore di aria stantia nei compartimenti stagni delle arti contemporanea.

Corcovado, performance di Luigi De Angelis e Michele Di Stefano – Museo Madre (2020).

Ricordo il 25 giugno 2017. Negli Stati Uniti andava in onda l’episodio numero 8 della terza serie di Twin Peaks, diretta e ideata da David Lynch. Il regista americano in 58 minuti aveva ristabilito gli assi cartesiani della video-arte. Quel che era interessante, infatti, di quella breve puntata di una serie divenuta capitolo nobile della storia della televisione, era il modo in cui un regista di cinema – pur visionario come l’autore di Mulholland Drive o Eraserhead – facesse irruzione all’interno di un altro linguaggio e vi impartisse una suprema lezione. C’è da dire che Lynch ha portato avanti, negli anni, una lunghissima frequentazione col mondo delle arti visive, ma l’esito raggiunto in quell’episodio ormai storico andava al di là di ogni aspettativa per quanto riguarda la ridefinizione dei registri linguistici.
Ho rammentato tutto questo quando mi sono trovato ad assistere alla performance Corcovado nata dal genio di Michele Di Stefano, leone d’argento alla Biennale di Venezia (settore danza) nel 2014, affiancato, nell’occasione, da Luigi De Angelis e da un Lorenzo Gleijeses in forma smagliante nelle vesti di danzatore. Anche in questo caso, come nel precedente da me citato, veniva dato fuoco ad un confine balcanico come quello tra due ambiti piuttosto simili, ma profondamente distanti, la performance teatrale (o di danza) e quella che fa riferimento alle arti visive. Nel suo insieme questo genere di opere costituisce uno degli oggetti più complessi e al contempo più frequentati – verrebbe da dire usurati – dalla produzione contemporanea. Se c’è, infatti, una forma d’arte che può, con un certo grado di sicurezza, essere assunta a simbolo della produzione del XXI secolo, è proprio la performance. E non c’è bisogno di citare la vittoria del padiglione Lituano alla scorsa Biennale di Venezia per suffragare questa affermazione. Varrà, però, la pena di farlo per dire che, anche in quel caso, ad aggiudicarsi il Leone d’oro sono state tre artiste provenienti da discipline affini, ma differenti dalle arti visive propriamente dette. La conclusione che se ne può trarre e che anticipa la riflessione che andrò a fare di seguito, è simile al celebre adagio tratto da Per un pungo di dollari che così recita: «Quando un uomo con la pistola incontra un uomo col fucile, quello con la pistola è un uomo morto». Questo per dire – traslando – che quando un coreografo (o un regista di teatro) incontra un artista visivo sul territorio della performance, il rischio che quest’ultimo abbia la peggio è piuttosto alto. Fortunatamente in questo caso, come in quello di Lynch, il trio teatrale che ha concepito e realizzato Corcovado non ha incontrato nessuno sulla propria strada e ha potuto dar corso al suo «episodio numero otto» senza spargimenti di sangue davanti ad un centinaio di spettatori.
Tuttavia, qualcuno con cui confrontarsi c’era, magari non in carne ed ossa, ma nel fantasmatico stato di memoria dei luoghi. La performance a cui ha assistito chi scrive, infatti, si è svolta al museo Madre di Napoli, tempio dell’arte contemporanea di queste ultime stagioni italiane. Ed è su questo terreno che l’opera, costruita su un nastro trasportatore – di quelli che si possono vedere negli aeroporti, per intendersi -, ha imposto la sua legge. Quanto visto nei circa 45 minuti della sua durata si può dire che sia valso più o meno quanto tre anni di programmazione (pur pregevole) dell’intero museo. Questo perché l’opera di Di Stefano e compagni ci dimostra una cosa semplicissima, ossia che non si può scrivere la storia dell’arte in Italia mantenendo la ferrea quanto insensata distinzione tra le discipline che si è andata lentamente imponendo dagli anni Ottanta in poi. C’è, infatti, più arte contemporanea in questa performance ospitata per due giorni dal Madre (ma che avrà una tournée in altri spazi simili) che in tutte le mostre che mi sia capitato di vedere da qualche anno a questa parte, tra musei, gallerie e fondazioni varie ed eventuali. E questo, forse, perché la danza, quando sconfina dai suoi ambienti abituali è in grado di affrontare temi e problemi – anche di linguaggio – con una immediatezza che non inciampa in quelle forme sclerotizzate di tradizione a cui le arti visive hanno ceduto un po’ per compiacimento, un po’ per reazionaria debolezza. La danza verso tutto questo, nel momento in cui entra in un museo, può mostrare una naturale irriverenza.
La grande sala della Repubblica Madre si svuota, evitando conflitti segnici e coabitazioni improprie viste in altri casi (nello stesso museo), per accogliere il dispositivo scenico, per giocare, giustamente «alle sue regole». Sul nastro trasportatore, che è struttura fisica, ma anche narrativa dell’opera, corrono lacerti esistenziali, tracce di vita, oggetti ludici, finanche esseri umani in carne, ossa e sangue. Sembra di vedere scorrere su quella sorta di tapis roulant nero la linea vitale di un elettrocardiogramma, che registra accelerazioni e rallentamenti esistenziali, picchi e cadute, giri a vuoto, soprattutto. È la registrazione, non la rappresentazione, della realtà che ci assale. È qualcosa, quindi, di reale a sua volta, che ci aiuta a capire quella differenza per nulla sottile tra arte e, appunto, rappresentazione. Se la prima, infatti, attiene a qualcosa di vitale, di miracolosamente vivo, non diversamente da noi, dagli animali randagi che abbiamo incontrato lungo la strada per raggiungere il museo, la seconda è un sistema di codici fatti per intendere – nella migliore delle ipotesi – o per ammiccare – nella peggiore.
È quasi divertente notare come la frutta che viene qui vomitata dal nastro come un accidente dell’esistere, insieme a tutto il resto delle cose essenziali e inessenziali che viaggiano con noi nella dimensione di un tempo che è sfuggito non solo al nostro controllo, ma anche alla nostra capacità di adattamento, possa aiutarci a rileggere una famosa banana recentemente balzata agli onori delle cronache dell’arte e divenuta un po’ il simbolo dell’arte contemporanea in quella deteriore prospettiva di rappresentazione a cui ci si è appena riferiti. Si trattava in quel caso del campione di quella sclerotizzata tradizione fatta di cliché del linguaggio, di quell’anti-lingua dell’arte che ormai trattiamo come fosse parola primitiva e poetica, confondendo la naturalezza con l’abitudine. Tutto questo è evidente nel momento in cui il simbolo «buffo» (e qui valga la definizione che ne dà Carmelo Bene rispetto al «comico») si mette a paragone con una vitale e crudele (artaudianamente) lettura della realtà che non ha tempo di prendere in giro niente e nessuno perché, come la realtà stessa, non conosce pietà. È il caso di questa performance, che non deve ammiccare ad un codice o a una morale di riferimento da sbertucciare. Questa performance si dà come realtà a sua volta, senza filtro, col fiatone, fortunatamente senza alito pesante.
Alcuni decenni fa, ormai, appuntavo su un diario perduto, una frase che poi ha guidato le mie indagini sulla generazione a cui appartengo. «Siamo diventati la civiltà degli androni», questo scrivevo, per sommi capi, qualche anno prima dell’inizio di questo secolo. Cosa intendevo? Semplice, che siamo ormai i custodi del grande edificio (culturale, civile) costruito dai nostri precursori e che non ci appartiene più. Lo abbiamo forse ricevuto in eredità, ma lo abbiamo perso al gioco, o magari abbiamo solo smarrito irrimediabilmente le chiavi delle sue stanze e ci siamo ridotti a vegliarne la notte, aggirandoci negli androni illuminati dai neon di sicurezza, al suono oleoso della televisione che proviene dal gabbiotto in cui, buon bisogno, ci addormentiamo, ogni tanto, un po’ rincoglioniti dal sonno o dalla Rai. Ed ecco che dagli androni della mia immaginazione di fine millennio, questa performance trasporta me e i miei colleghi spettatori nel loro omologo aeroportuale di questi esordienti anni Venti, dove la vita, passa e si perde, come fosse una ferita aperta, sorvegliata dall’apatia di un custode che s’alza quando vuole, quando gli va, per raccogliere una valigia caduta, un bagaglio rimasto a girare all’infinito per spostarlo da una parte all’altra senza che la cosa si carichi del ben che minimo senso.
Vedere tutto questo, fuori metafora, come «registrazione» appunto, è, per dirla con Bene – quando dal «buffo» passa a definire il «comico» – , «cattiveria pura, lama gelida e affilata che trafigge i ben decorati presepi» in cui ci convinciamo di abitare. La testimonianza che posso darne, come è mio compito, da spettatore, ha il sapore amaro di una conferma, quella per cui allora, il mondo che abbiamo visto coi nostri occhi, e di cui non trovavamo riscontro nelle conversazioni dei bar o nelle tribune televisive, era tutto tranne che un’allucinazione.