UNA GIORNATA QUALUNQUE DEL DANZATORE GREGORIO SAMSA
regia e drammaturgia Eugenio Barba, Lorenzo Gleijeses e Julia Varley
con Lorenzo Gleijeses
musiche originali e partiture luminose Mirto Baliani
oggetti coreografici Michele Di Stefano
consulenza drammaturgica Chiara Lagani
scene Roberto Crea
voci off Eugenio Barba, Geppy Gleijeses, Maria Alberta Navello, Julia Varley
assistente alla regia Manolo Muoio produzione Gitiesse Artisti Riunitiin collaborazione conOdin Teatret
foto Tommaso La Pera
Eugenio Barba accompagna Lorenzo Gleijeses da molti anni intercettando e esaltando le qualità e le intuizioni di un percorso di formazione e conoscenza, contaminato con il metodo della storica compagnia di Hostelbro e nato all’interno dell’Odin quando Lorenzo era ancora un ragazzo.
Risultato di questo ‘percorso di accompagnamento’ sono stati spettacoli, incontri e seminari in Italia e in Europa che hanno cementato e rafforzato il rapporto unico tra Barba, Julia Varley e Lorenzo Gleijeses, fino a questa prima regia firmata da Barba (con Gleijeses) al di fuori dell’Odin Teatret.
La scintilla che ha messo in moto il processo di creazione è scaturita dallo stridore e dalle assonanze generati dall’accostamento dell’opera di Kafka con gli oggetti coreografici creati da Michele Di Stefano con Lorenzo Gleijeses.
Ne è nato uno spettacolo in cui si intersecano tre diversi nuclei narrativi: alcuni elementi biografici dello stesso Kafka; la vicenda del personaggio centrale de La Metamorfosi, Gregorio Samsa e quella di un immaginario danzatore omonimo che rimane prigioniero della ripetizione ossessiva dei propri materiali performativi in vista di un imminente debutto.
“Gregorio Samsa è convinto che attraverso una ripetizione ossessiva delle sue partiture sia possibile arrivare ad un altro livello di precisione tecnica e di qualità interpretativa ma, di contro, il suo perfezionismo lo catapulta in un limbo in cui si erodono i confini tra reale e immaginario, lavoro e spazio intimo, tra teatro e vita quotidiana. Si scontrano, allora, le esigenze del mondo esterno e le sue profonde necessità personali.
Samsa ripete le sue sequenze coreografiche, come un novello Sisifo, per una pulsione patologica? Oppure è semplicemente mosso dal desiderio di spingere al massimo i risultati del suo lavoro e dal sogno utopico di superare i limiti imposti dalla sua natura umana?
I movimenti che Gregorio prova senza posa sono frutto di un impegno professionale e di un lavoro di concezione minuzioso tale da acquisire una ponderatezza e un equilibrio che le azioni della sua vita reale non possiedono. Gregorio è come un ragno che non può evitare di tessere la propria tela.
La sua ricerca artistica che mira alla libertà doppia la sua stessa vita, acquisisce una ricchezza labirintica che sarà squarciata dalla volontà di inseguire sé stesso.” (Lorenzo Gleijeses)
Storie di tradimenti - Eugenio Barba
Nel settembre 2015, nel corridoio che porta alla cucina dell’OdinTeatret, mi trovai di fronte Lorenzo Gleijeses e Mirto Baliani. Erano da noi in residenza, intenti a sviluppare dei materiali elaborati in precedenza con il coreografo Michele Di Stefano. Approfittavano dell’occasione per mostrarli anche a Julia Varley che, come regista, ha un rapporto di lavoro con Lorenzo sin dal 2002.
Lorenzo mi sta simpatico. Ha delle qualità umane e professionali che mi toccano. Paziente nei confronti del lavoro, è capace di indovinare cosa il processo stia indicando, pronto ad abbracciare una situazione inaspettata nonostante non riesca a dominarla con la ragione. Possiede la più grande virtù di un attore: sa resistere alla tentazione di accontentarsi del primo risultato.
Lorenzo è un attore anfibio, capace di vivere nelle vaste acque del teatro tradizionale e sulle isole galleggianti del Terzo Teatro. Figlio d’arte, appena diciottenne, Lorenzo si lasciò “traviare” e si gettò in un percorso di “lavoro su sé stesso” guidato da Julia. Il training a cui si sottomise – un apprendistato del corpo-mente e della voce tipico dell’OdinTeatret e molti altri gruppi teatrali – sfociava in una drammaturgia d’attore. Con questo termine intendo la capacità da parte dell’attore di creare autonomamente materiali scenici – modi di muoversi, camminare, comportarsi, parlare, scrivere o selezionare brani di prosa o poesia, improvvisare scene, fissarle, distillarle. Su questo materiale sorto dall’immaginazione e dall’esperienza individuale, si fonde gradualmente il testofinale, dando così nascita al personaggio.
Potrei quindi dire che esiste un teatro che lavora peril testo, interpretandolo e adattandolo a contingenze storiche ed estetiche a noi vicine; e un teatro che lavora con il testo la cui forza è una delle tante che compongono lo spettacolo, un organismo vivente che sprigiona energia.
Un giorno Julia, a causa di un impegno fuori dal teatro, mi chiese di osservare i “materiali” di Lorenzo e Mirto. Rimasi sconcertato. Erano solo sei movimenti ripetuti maniacalmente nello spazio in infinite varianti. La mia attenzione si affievolì fino a spegnersi totalmente. Lo spiegai a Lorenzo: non riuscivo a scorgere niente in quei movimenti astratti. L’unica vaga associazione l’avevo avuta quando era al suolo e si contorceva come uno scarafaggio rovesciato sul dorso. Scherzando gli dissi che avrebbe potuto chiamare il suo spettacolo La metamorfosidi Kafka.
Diceva Meyerhold che non bisogna mai scherzare con i pedanti, perché prendono tutto alla lettera. Lorenzo non è un pedante. Cosa sia, lo potete immaginare quando il giorno dopo, sempre nello stesso corridoio, mi pregò di vedere come aveva adattato i suoi materiali al testo della Metamorfosi. Durante la notte aveva registrato il testo di Kafka che adesso, nella parte finale, una voce fuori campo interpretava durante le sue contorsioni. Il risultato era embrionico, non capivo se fosse maschio o femmina, che cosa volesse diventare, se avesse vitalità per crescere durante i futuri mesi di gestazione. Ero però, impressionato dalla determinazione di Lorenzo e Mirto che nel giro di una notte avevano trasformato una battuta ironica in realtà scenica: una presa di posizione.
Osservai il loro lavoro ancora un paio di volte commentandolo vagamente. Da parte mia vi era una sconfinata simpatia per quei due stacanovisti nottambuli, e nessuna voglia di lasciarmi coinvolgere. Al momento di lasciare Holstebro, Lorenzo mi chiese se poteva mostrarmi lo sviluppo dei materiali quando mi sarei trovato in Italia. Certo, risposi, ben sapendo quanto sia difficile trovare momenti liberi in una tournée con l’OdinTeatret. Lo presi in giro: tradiva il coreografo con un regista? Replicò serio che immaginava di dare due destini diversi a quei sei movimenti astratti. Mi piacque la sua definizione di tradimento: scegliere un destino diverso.
Nella primavera del 2016 Lorenzo mi chiamò al telefono: eravamo disposti, io e Julia, a dare una masterclass pubblica? Lui avrebbe presentato i materiali della Metamorfosie noi due saremmo intervenuti da bravi registi: accorciato, modificato, proposto, elaborato dettagli, affilato ritmi, suggerito intonazioni. Insomma, una prova aperta al pubblico, poche ore, una sola serata. Il Festival Internazionale di Napoli era interessato a inserirla nel suo programma.
Durante quella serata alla Galleria Toledo a Napoli nel giugno del 2016, mi resi conto del lungo cammino che Lorenzo e Mirto avevano percorso dopo Holstebro. Il minuscolo embrione era cresciuto, ostentava fattezze e cadenze sue, un profilo di intarsi dinamici ed evocativi con una potenzialità di immagini che stuzzicavano la voglia di accompagnarne il loro sviluppo.
Così Lorenzo, Mirto, Julia ed io – e l’infaticabile alter ego factotum Manolo Muoio – decidemmo di far crescere lo spettacolo insieme. Convalidammo il titolo: Una giornata qualunque del danzatore Gregorio Samsa. Sarebbe stata una creazione collettiva. Ci arrovellammo il cervello per scoprire nel nostro calendario brevi parentesi per incontrarci e modi per procedere anche a distanza. Whatsapp ed email, video e skype possono aiutare, ma non trasmettono energia che pulsa. Su Lorenzo e Mirto incombeva la responsabilità di esplorare e far crescere le avverabili incarnazioni dell’embrione. Era loro compito aggiungere testi, inventare scene, musiche, introdurre altri partner – oggetti o gadget tecnologici. La vera difficoltà era trovare dei periodi, anche brevi, per annullare i duemila chilometri che ci separavano e ripristinare l’intensa intimità di lavoro che permette di applicare il principio essenziale: plasmare, capovolgere, tranciare. Togliere è aggiungere, aggiungere è togliere. Era una situazione totalmente insolita e spiazzante per me, abituato ad accompagnare la crescita di uno spettacolo giorno dopo giorno durante molti mesi.
Riuscimmo a lavorare insieme cinque giorni a Roma al Teatro Quirino nel giugno 2017 e per un periodo altrettanto lungo a Napoli nel marzo 2018. Lorenzo venne a Holstebro una settimana nel settembre dello stesso anno. Alla fine, sempre a Napoli, ci ritrovammo per nove giorni a novembre 2018. Lorenzo continuava a lavorare in Italia con Mirto e Manolo e spediva via WhatsApp regolarmente a Julia e a me nuovi testi o modifiche di scene già fissate, ricevendo in cambio commenti e indicazioni.
Quando si prepara uno spettacolo, esiste sempre un momento della verità. Così viene chiamato durante una corrida il confronto decisivo tra toro e toreador che con una rapida sapiente stoccata squarcia con la sua corta spada il cuore dell’animale. In teatro il momento della verità è di solito l’incontro con gli spettatori. Ma non sempre. A volte è in tutt’altre circostanze che l’attore rivela il suo impegno artistico e il suo spirito di sacrificio verso l’embrione che ha nutrito fino a dargli un’autonoma identità di finzione teatrale, di realtà che dice.
Il momento della verità avvenne tra il 23 e il 29 giugno 2018. Ancora una volta Il Festival di Napoli aveva appoggiato il progetto di Lorenzo e compagnia. Durante una settimana una trentina di attori, registi e drammaturghi potevano seguire le prove della Giornata qualunque del danzatore Gregorio Samsa.Fu al NEST, Napoli Est Teatro, nell’’accogliente casa di questo intraprendente collettivo, che ebbe luogo una “mente collettiva”. Nel bando di partecipazione si spiegava cosa fosse: In teatro, possiamo parlare di “mente collettiva” quando un gruppo di persone motivate è impegnato in un processo creativo che non miri a realizzare un progetto già chiaramente definito. Una “mente collettiva” integra differenti specializzazioni, vari gradi di esperienza e diversi livelli di responsabilità in un processo di assemblaggio simile a quello che si verifica in una mente individuale alle prese con l’invenzione: improvvisi cambi di direzione, deviazioni, capacità di sfruttare scoperte improvvise e inaspettate, slittamento fra differenti livelli di organizzazione (pre-espressivo, drammaturgia organica, drammaturgia narrativa, invenzione dello spazio, universo musicale, etc.). La “mente collettiva” investe la medesima quantità di energia tanto nel programmare quanto nel cercare di scoprire come demolire i suoi stessi programmi. Dopo aver assistito alle prove, i partecipanti si riuniranno per porre domande e discutere sul lavoro della giornata con Eugenio Barba e i suoi collaboratori e avranno la possibilità di suggerire cambiamenti e nuove direzioni. Durante le prove, fili narrativi sempre nuovi emergono, si mescolano e vengono smarriti. Allo stesso tempo la “mente collettiva” cerca di approfondire ed elaborare i materiali già sviluppati. Vengono proposte nuove soluzioni, tecniche e tentativi che possano svelare dove questi materiali potrebbero condurre, quali nuove storie innescare e quali potrebbero essere i finali più appropriati.
Erano passati tre mesi da quando a marzo il nostro quintetto aveva avuto cinque intensi giorni di prove in cui avevamo stabilito la struttura da cui distillare la fase finale dello spettacolo. Ci eravamo lasciati dando a Lorenzo e Mirto mani libere per apportare ulteriori proposte. Al NEST, anticipavo il piacere delle novità con le quali Lorenzo mi avrebbe sorpreso. Rimasi costernato. In un impeto di creatività, Lorenzo e Mirto avevano sfasciato e riplasmato l’intera struttura dandole, ai mei occhi, tutto un altro senso.
Dopo la passata, il silenzio durò a lungo. Sentivo alle mie spalle l’impatto che lo spettacolo aveva provocato nei partecipanti della mente collettiva. Julia paventava le mie reazioni. Lorenzo e Mirto attendevano fiduciosi un apprezzamento per la notevole trasformazione che erano riusciti a realizzare.
Come dire che mi sentivo tradito? Che parole usare per esprimere il rammarico per un’aspettativa profonda che era stata gabbata? Cosa era scomparso dalla versione precedente che avevo mantenuto in vita dentro di me per mesi e mesi, limando un particolare, una pausa, un atteggiamento?
Chiesi a Lorenzo il motivo del radicale cambiamento nella struttura che avevamo concordato. I suoi argomenti erano pertinenti e i risultati ne dimostravano l’efficacia. Le reazioni dei partecipanti ne erano la prova. Ma a me mancava il disagio e l’irritazione che mi creava la lettura del testo di Kafka. Adesso l’assurda storia di un uomo che diventa insetto non destava più in me fastidio, scuotimento scettico di testa, sbigottimento, quasi panico, qualcosa che mi riguardava direttamente pur non capendone chiaramente il motivo. Era la parte rettile del mio cervello che non reagiva più? Era la metafora che rimaneva solo metafora concettuale, artisticamente ben confezionata, ma che non mordeva più la carne. Fu una spettatrice, una volta, a darmi questa definizione, questo metro di misura di uno spettacolo.
Spiegai a Lorenzo e Mirto che dovevamo dimenticare la loro versione e ricostruire quella precedente. In quel momento ammirai Lorenzo e ne apprezzai la forza d’animo. Replicò solamente: d’accordo, cerchiamo di ricostruirla. E ci riuscimmo durante quella settimana grazie al suo sforzo sovrumano.
A Lugano, città che in passato ospitava gli anarchici italiani in esilio, un giorno Julia incontrò un amico che le chiese: è vero che Eugenio sta tradendo i suoi attori e fa uno spettacolo fuori dal suo teatro? Diceva la verità:per 55 anni ho messo in scena solo gli attori dell’OdinTeatret e i maestri asiatici del Theatrum Mundi Ensemble. Perché ho tradito questa mia abitudine, vocazione o pigrizia?
Vi sono tradimenti che sono piacevoli e tradimenti che sono una fuga. Tradimenti che sono una forma di rinnovamento o la scelta di un destino diverso. Ma il tradimento di Julia e mio con Lorenzo, Mirto e Manolo è stato un ritorno a casa, al mio mondo. A quale mondo appartiene il mio teatro? Se fosse un elemento – terra, acqua, fuoco, aria – sarebbe il mare. Non conosco l’arte di rimanere a galla da solo. Allora cerco la mano di un altro – un individuo disperato, fiducioso, ambizioso o ingenuo, ferito profondamente o che vuole scappare da sé stesso. È un individuo pronto a spingere il mare insieme a me verso quel muscolo che pompa sangue. E quando esausti sentiamo che è impossibile, il mare è una goccia che cola azzurra sulla gota di uno spettatore.
Suona sentimentale, ma lo sforzo ne vale la pena. (Eugenio Barba)
Il cammino tortuoso di una creazione - Julia Varley
Vedendo oggi lo spettacolo Una giornata qualunque del danzatore Gregorio Samsa e la sicurezza fisica con cui Lorenzo Gleijeses si muove sulla scena mi è difficile ricordare la sensazione che ebbi quando lo incontrai per la prima volta durante un seminario. Era l’immagine perfetta di un puledro appena nato che si regge a malapena sulle sue gambe sottili.
Ero a Napoli per una tournée dell’Odin Teatret con lo spettacolo Mythosorganizzato da Galleria Toledo nel 2002 e il seminario era al Teatro Mercadante. Alla fine della classe, Lorenzo mi accompagnò timido e rispettoso al tram che prendevo per tornare a casa di mia madre. Voleva avvicinarsi, parlare, approfondire il contatto. Lo aveva colpito che, ascoltando la sua voce, gli avessi messo le mani sulle spalle e sulla schiena, cercando di indurre energia senza tensioni inutili, tenerezza e fiducia.
Ricordo invece chiaramente l’espressione perplessa e piena di meraviglia che ho rivisto tante volte dopo sul viso di Lorenzo. Gli avevo chiesto il primo giorno del seminario di ripetere la scena che aveva appena fatto. “Ma come, se non la sento? Ho bisogno di tempo per ritrovare la motivazione…”. Veniva da una scuola in cui le emozioni erano la guida su cui appoggiarsi e il comportamento fisico era il risultato ignaro di quello che l’attore provava. Lorenzo non ricordava comesi era sdraiato per terra, non ricordava neanche di aver piegato le ginocchia. Ho dovuto guidarlo pazientemente passo a passo.
Tante volte ho sperimentato lo sguardo incredulo di giovani attori che mi guardano come fossi un marziano quando spiego loro che la mia attenzione è rivolta agli spettatori e a quello che loro sentono e percepiscono, ognuno in modo diverso. La mia aspirazione è dare allo spettatore la possibilità di vivere un’esperienza in cui la forma e il ritmo di una scena lancia un messaggio da decifrare. Non è il significato o la storia che determina la comunicazione, ma l’energia, l’intonazione, la successione di impulsi che compongono il linguaggio corporale vivo e animale. Chissà se Lorenzo sarebbe stato tanto pieno di riguardi se avesse saputo quante volte negli anni a venire gli avrei detto: “Ripeti, ancora, un’altra volta”.
È difficile riuscire a lavorare con me come regista perché do priorità al mio lavoro di attrice e all’Odin Teatret. Nonostante ciò ho fatto molte regie. Varie attrici e qualche attore si sono avvicinati a me negli anni. Mi seguono dovunque mi trovo nel mondo, mi chiedono consigli e compiti, mi obbligano a guardarli e guidarli nel mio tempo libero e durante le vacanze, fino a quando questo attaccamento risulta in materiali scenici che rivendicano il diritto di vivere, crescere ed essere amati, come lo fanno i bambini, anche quelli nati fuori dal matrimonio. Una volta che esiste una scena, che le idee si sono trasformate in azioni, e che i compiti dati in fretta per la mancanza di tempo si sono concretizzati davanti ai miei occhi in proposte reali, sento la responsabilità di accompagnare la bozza di spettacolo e portarlo a termine.
La conseguenza sono processi che durano a lungo, con prove a intermittenza che proseguono per due o tre anni. Ma la vera frustrazione arriva dopo, quando non riesco a seguire lo spettacolo nel momento in cui è presentato agli spettatori. L’esperienza mi insegna che il mio modo di lavorare-e il nostro all’Odin Teatret – ha bisogno di tempo, sia per il processo di creazione che per far maturare il risultato. L’attore deve appropriarsi del materiale scenico, ripetere fino a dimenticare le migliaia di dettagli che compongono lo spettacolo, incorporare tutte le correzioni ed elaborazioni ricevute dall’esterno fino a farle diventare sue. Solo dopo una cinquantina di repliche ho visto gli spettacoli di cui ho curato la regia “volare”. Ma purtroppo viviamo in un’era in cui dopo aver finito uno spettacolo e averlo presentato qualche volta si passa subito a un altro progetto. La continuità di sviluppo che offre l’ambiente stabile di un gruppo di teatro è difficile da mantenere. La pazienza di aspettare che i risultati appaiano proprio quando non si aspettano è un lusso che pochi possono permettersi o che pochi sono disposti a difendere con la testardaggine necessaria.
Lorenzo Gleijeses e Manolo Muoio mi hanno seguito in due processi di questo tipo per gli spettacoli Il figlio di Gertrude e L’esausto o il profondo azzurro. Abbiamo una storia condivisa di ore e ore di incomprensioni e scoperte, di dubbi e complicità, di silenzi e sudore, di accanimento e tentazione di desistere, di costrizioni materiali e invenzione di possibilità impossibili. Fissai il ritmo tendenzialmente sempre più veloce di Lorenzo in Il figlio di Gertrudecon una colonna sonora che durava tutto il tempo dello spettacolo. Dovette imparare a seguire e dialogare sempre con musica e suoni, a dispetto dell’impegno emotivo delle scene e nonostante l’aiuto esterno di Manolo che a volte anticipava o tagliava il suono. In L’esausto o il profondo azzurro usammo ombre e video, luci e una scenografia impegnativa che hanno richiesto pazienza e apprendimento da tutti noi. Lavorammo a lungo sul testo, sul modo pacato ma udibile di dirlo, mantenendo uno spazio intimo e senza gridare.
Poi ci si scontra con la difficoltà di vendere e far girare gli spettacoli. Oggi la vera creatività si rivela nel saper inventare progetti e contesti che risolvano le questioni economiche e organizzative e permettano agli attori di trovarsi inscena di fronte a spettatori. Il mio nome come regista non vende negli ambienti di teatro tradizionale e sperimentale. Così Lorenzo e Manolo hanno seguito altre strategie per fare teatro e la nostra collaborazione si è interrotta per qualche tempo, nonostante continuassimo a incontrarci ogni volta fosse possibile, anche per presentare il mio libro Pietre d’acqua, edito da Franco Quadri, scritto in parte proprio per rispondere alle domande di giovani attori.
Lorenzo ha ripreso a partecipare a spettacoli di repertorio di testi classici e contemporanei, si è dedicato al programma alternativo del Teatro Quirino a Roma gestito dal padre Geppy Gleijeses, ha approfondito il rapporto lavorativo con il gruppo Fanny e Alexander di Ravenna, e ha continuato ad interessarsi agli incroci fra danza e teatro per soddisfare il suo bisogno di impegno fisico nato con il training. Manolo, sposato con una giovane cubana e con due figli da mantenere, ha cominciato una collaborazione con Antonio Rezza e Flavia Mastrella, presentato spettacoli ideati e realizzati da solo, e aiutato Lorenzo nella produzione e concezione di progetti ogni volta che gli era chiesto. Ma l’idea di essere un gruppo stabile è stata abbandonata. Avevamo pensato al nome Prickly Pears (“fichi d’india” in inglese) fantasticando su futuri impegni internazionali a confronto con le radici impiantate nel Sud.
Una delle occasioni di rinnovato incontro fu una tournée dell’Odin Teatret a Gallipoli, in Puglia, nel 2014. Lorenzo venne a visitarci per farci conoscere Maria Alberta Navello, che sarebbe diventata la madre di sua figlia Valeria. Ci raccontò quanto fosse difficile avere il tempo e lo spazio da dedicare alla ricerca, quanto gli mancasse la possibilità di dedicarsi a un progetto autonomo. Aveva nostalgia dei tempi in cui aveva l’ambizione di essere un attore/autore come lo era stato Leo de Berardinis. Durante quella chiacchierata sul lungomare accanto al porto dei pescatori, con il viso rivolto al sole settembrino e il giornale fra le mani, fu lanciato in aria il primo seme del futuro spettacolo Una giornata qualsiasi del danzatore Gregorio Samsa. Eugenio ed io offrimmo a Lorenzo un periodo di residenza al Nordisk Teaterlaboratorium a Holstebro e una cifra[JV1] modesta.
Dopo una fitta e abituale corrispondenza per far combaciare calendari e impegni, Lorenzo e Mirto Baliani vennero al nostro teatro in Danimarca,per due settimane a novembre 2015. Già era successo molto. La necessità incrociata di trovare finanziamenti descrivendo intenti e il desiderio di ricerca avevano prodotto vari titoli, proposte e testi. Una sequenza di movimenti era stata fissata durante il lavoro con Michele Di Stefano, coreografo di mk, e l’idea di lavorare su sviluppi paralleli con diverse drammaturgie era nato dallo scambio con Luigi De Angelis di Fanny e Alexander. C’era poi il desiderio di Lorenzo e Mirto di lavorare assieme.
All’inizio il progetto si chiamava 58° Parallelo Nord. Holstebro si trovava al Parallelo Nord. In un documento di quel periodo si leggeva: “All’inizio come agisce e reagisce il corpo di un performer alle sollecitazioni di chi ne fa materia compositiva? Che metodo utilizza Eugenio Barba e come possono essere tramutate le acquisizioni da lui raggiunte nel momento in cui intervengono su di esse – secondo la propria poetica – Michele Di Stefano e Luigi De Angelis? E cosa resta o cosa viene dimenticato, perduto o abbandonato durante la fase di creazione? Come viene costruito un gesto, l’atto della condivisione di una parola o di una frase, un movimento del corpo in rapporto allo spazio, un istante di teatro? E ancora: come disponi il tuo corpo verso l’esterno? E chi sei (o chi diventi) nel momento in cui incontri l’altro?”
Molte parole per giustificare un bisogno più essenziale: impegnarsi nella ricerca scenica in quanto attore. In realtà, durante il processo per creare uno spettacolo – o addirittura due in contemporanea come voleva Lorenzo – bisogna imparare a collaborare con il caso. In quelle settimane a Holstebro avevo promesso di seguire il lavoro di Lorenzo e Mirto, ma sono dovuta partire e ho chiesto a Eugenio Barba di aiutarmi. Sapevo che a Lorenzo e Mirto avrebbe fatto molto piacere la presenza di Eugenio durante le prove, ma anche che Eugenio avrebbe apprezzato di essere obbligato ad entrare in sala e lasciare da parte gli impegni amministrativi che ci assillano quotidianamente.
Al mio ritorno ho visto una ‘filata’ dei materiali. Alla fine, cercavo di capire cosa guidava la decisione e determinazione di Eugenio nel dare suggerimenti e indicazioni, ma ero perplessa. Non avevo visto niente che mi desse associazioni per guidarmi in ulteriori commenti e compiti, solo movimenti che mi sembravano duri e inorganici, meccanici e ripetitivi. Non capivo come si era formata la complicità fra Eugenio, Lorenzo e Mirto, e cosa c’entrasse la sequenza di un danzatore che torna a casa con La Metamorfosidi Franz Kafka. Perché Lorenzo correva verso un muro bianco? L’accompagnamento sonoro e le luci mi convincevano di più, ma anche in quel campo mi trovavo in difficoltà a seguire una logica che mi permettesse di fare proposte. Ero stata assente e ora mi ritrovavo all’esterno senza trovare una porta o una finestra che mi aprissero uno spiraglio per tornare a far parte del processo.
Il prossimo incontro è avvenuto alla Galleria Toledo a Napoli a giugno 2016. Manolo era di nuovo con noi assieme a Mirto e Lorenzo. Mi sentivo a casa in questo ambiente, meno insicura del mio ruolo e di come potevo contribuire. Ho messo da parte il desiderio di ricevere associazioni e di capire e ho scelto di ragionare come attrice. Ho mostrato cosa avrei fatto io nei quadrati e rettangoli illuminati, come avrei giocato con lo spazio e con la luce, come avrei creato sorprese e variazioni, cosa potevo fare con le corde appese che ora limitavano lo spazio, guidata solo dalla necessità di mantenere l’attenzione dello spettatore e di Eugenio che osservava da fuori. Ho prestato il mio corpo, così assolutamente diverso da quello di Lorenzo. Eugenio era assorto a immagazzinare immagini concentrandosi sui problemi del “qui ed ora”. È stato lì che gli ho sentito dire per la prima volta: “Mi basta una settimana di lavoro e finiamo”. Speravo tanto che Lorenzo, Mirto e Manolo non gli credessero.
Di certo hanno lavorato molto, prima che ci incontrassimo nuovamente a giugno 2017, sul palco del Teatro Quirino a Roma, senza osservatori. È stato lì che lo spettacolo mi ha aperto le porte. Finalmente durante la prima prova ho visto la potenzialità di essere commossa da Lorenzo in scena accompagnato dalla precisione della colonna sonora di Mirto. In quei pochi giorni, ore e ore sono state dedicate alla prime scene in cui dovevano apparire e sparire mani e ginocchia, viso e torso in un dialogo con la luce forte che pioveva dal soffitto. Lorenzo era stanco. Il suo sguardo verso la luce irradiata dall’alto sembrava una supplica. Era il desiderio dell’attore che qualcosa finalmente funzionasse o la preghiera di un personaggio che cominciava ad emergere? Cominciavo a lasciarmi guidare dalle associazioni.
In quei giorni abbiamo registrato le voci esterne ed è apparsa la televisione grande. Non mi piaceva. Mi sembrava troppo simbolica quando pesava sulla schiena di Lorenzo schiacciandolo. La solitudine di un giovane contornato da mezzi tecnologici di ogni tipo, che diventa sempre più piccolo e chiuso in sé stesso, non poteva accontentarsi di una televisione tipica di un’altra generazione. Mi impediva la visuale e disturbava il disegno delle luci. Ma le costrizioni e le difficoltà obbligano a trovare soluzioni inaspettate. Eugenio sembrava entusiasta: “Abbiamo la scena finale. Abbiamo capito la direzione che vuole prendere lo spettacolo, ancora una settimana di lavoro e concludiamo.” Ci siamo lasciati con la sensazione di avere fatto passi avanti e Lorenzo pensava di sapere su cosa dovesse lavorare. Anch’io ho sperato che fosse così.
Ma era in arrivo la fase in cui gli abbozzi di idee ripetute perdevano forza e convinzione ad ogni prossimo incontro. Nuovi compiti si susseguivano con decisione, ma in direzioni contraddittorie. Bisognava creare, fissare, ripetere una, cento, mille volte,per poi buttare via e ricominciare. Le scene che sembravano non avere futuro, occupavano la nostra attenzione. Proprio quando ci consolava l’illusione di aver raggiunto un risultato, è arrivata la sensazione che niente funzionasse accompagnata dalla disperazione del tempo che corre. È il momento arduo quando bisogna vendere lo spettacolo e decidere la data della prima, creando un obbligo esterno. È il tempo per i registi di passare dalla parte degli spettatori e abbandonare gli attori. Niente può essere più perdonato. Il rigore è al massimo livello. Anche Lorenzo, lavorando da solo, ha lavorato come regista e ha perso “le radici” in scena.
Le voci registrate esterne dovevano chiarire la storia ma allontanavano il senso. Lo spettacolo era diventato concettuale e la possibilità di commuovere era sparita. Quello che avevamo davanti era intelligente, ma non pulsava. Non funzionava più. Tutto questo di fronte a trenta attori e registi che partecipavano a una “mente collettiva” (masterclasssulla messa in scena tenutasi al Napoli Teatro Festival 2018, ndr) riunita per seguire le ultime prove. Ognuno di loro aveva un’opinione da sostenere, un’idea da apportare. Mi sono spostata di nuovo sulla scena per accompagnare Lorenzo e aiutarlo a ricordare le sequenze, a rilassare la voce che fuoriusciva stridula da un corpo proteso nel desiderio assillante di arrivare al risultato finale e non dovere mai più ricominciare da capo. Eugenio ha mandato Manolo a comprare il “cucciolo”, un piccolo robot aspirapolvere rosso, quasi un giocattolo. Bisognava urgentemente ritrovare la fiducia nel lavoro, nello spettacolo che decide di cosa ha bisogno nonostante le visioni registiche e le ambizioni drammaturgiche, attoriali e musicali.
Ancora una settimana. Questa volta a Eugenio è scappata pure la scommessa: una settimana a Holstebro per lavorare con i testi, un’altra a Napoli per mettere tutto assieme e fare una filata al giorno. Prometto che non interrompo, ripete Eugenio ogni volta che comincia la prova. Ma non ci riesce mai. I primi minuti dello spettacolo sono ripetuti all’infinito. Arriveremo mai alla fine? L’errore evidente che all’inizio indicava la direzione da prendere ora non ha più il diritto di esistere. Il titolo poteva essere Moto perpetuo. È stato dimenticato. Forse perché comincia ad apparire il risultato finale, il punto di arrivo di una giornata qualsiasi di un danzatore che parla con il padre, con la fidanzata, con lo scenografo, con la psicologa alla ricerca di sé stesso. Si crede uno scarafaggio o sono gli altri a vederlo come tale? Non importa. Rimangono i sei movimenti iniziali e l’infinità possibilità di variazioni evocative scoperte lungo il tortuoso cammino della creazione. (Julia Varley)
Una giornata qualunque del danzatore Gregorio Samsa – tra gli spettacoli imperdibili del 2020
Progetto 58° PARALLELO NORD (2015-2020).
C’è un senso di spaesamento all’interno del concetto di “dromoscopia”, con cui il filosofo Paul Virilio critica l’odierna idea del viaggio, che ha fagocitato i concetti di esplorazione e di percorso in favore dell’idea di spostamento rapido, quasi istantaneo. Prendete un treno disposto parallelamente a un altro treno immobile: seduti all’interno di uno dei due convogli noi, spesso, non riusciamo a capire quale si stia muovendo. Questa sensazione, secondo Virilio, è un esempio di dromoscopia. La stessa idea di spaesamento è stata proposta come una possibile pratica dell’incontro artistico da Lorenzo Gleijeses ad alcuni compagni di viaggio, in un progetto di creazione che mette in crisi il ruolo monocratico dell’artista demiurgo, procedendo per tappe che portano sopra di esse i “segni” evidenti dell’incontro.
Ma pur partendo dallo spaesamento, “58° parallelo Nord” voleva anche – e già dal titolo – marcare un’appartenenza. Il parallelo in questione è quello che passa per Hostelbro, sede dell’OdinTeatret di Eugenio Barba ma anche dell’International School of TheatreAnthropology, che della pratica dell’incontro e dello scambio ha fatto il motore principale della creazione.
Come nel gioco collettivo surrealista del cadavreexquis, i materiali di 58PN migrano da un incontro all’altro, sottoponendo all’artista successivo i risultati dell’incontro precedente e innescando un meccanismo di trasformazione dove ogni traccia sarà evidente ma il risultato finale sovrasterà ogni individualità coinvolta. Uniche costanti: la presenza di Lorenzo Gleijeses come corpo-perfomer e quella di Mirto Baliani come contrappunto sonoro, sia per la composizione che per l’esecuzione.
I primi artisti coinvolti sono Eugenio Barba, Julia Varley, Michele Di Stefano, Biagio Caravano, Luigi De Angelis, Chiara Lagani, Roberto Crea.
Da questa lunga fase di esplorazione, hanno avuto origine due progetti produttivi autonomi.
Da un lato la performance, Corcovado, diretta da Michele Di Stefano e Luigi De Angelis, con debutto al Festival Fog del Teatro dell’Arte-Triennale di Milano nel maggio 2020.
Dall’altro, lo spettacolo teatrale, Una giornata qualunque del danzatore Gregorio Samsa, diretto da Eugenio Barba insieme a Julia Varley e allo stesso Gleijeses, e prodotto da NordiskTeaterlaboratorium, Gitiesse Artisti Riuniti e Fondazione TPE, con debutto al Teatro Astra di Torino a gennaio 2019, dopo un’anteprima a inizio dicembre 2018 per il Teatro Nazionale della Toscana a Firenze. La fase di allestimento di questo secondo lavoro ha avuto un ulteriore momento di apertura al pubblico in occasione del Napoli Teatro Festival Italia, a giugno 2018, quando è stata presentata Mente Collettiva: masterclassdi Eugenio Barba, Lorenzo Gleijeses e Julia Varley, focalizzata sugli interventi concreti del Maestro nella fase finale del processo di prove.
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Osvaldo Guerrieri [La Stampa.it – 16 gennaio 2019]
[…] Imprigionato in questo bozzolo più onirico che reale Lorenzo Gleijeses sigla una prova d’attore fra le più significative di una carriera sempre interessante. Sulla musica percussiva di Mirto Baliani danza con precisione millimetrica saltando come una pedina degli scacchi da un riquadro all’altro e conferendo teatralità anche alle parti minime del corpo: le ginocchia, un dito, un piede. E sa trasformarsi in un misto di creatura reale e creatura sognata nel momento in cui il suo Gregorio Samsa affronta o tenta di affrontare il corpo a corpo con la vita di tutti e con l’umanità che a vario titolo lo assedia. Non sorprende che alla fine il danz-attore venga ripagato da un applauso che appare ed è interminabile.
Anna Bandettini [La Repubblica – 4 marzo 2020]
Fa fruttare la sua storia personale il giovane Lorenzo Gleijeses, figlio d’arte. Solo in scena, poche parole e una partitura fisica straordinaria che si ripete ossessivamente con cambiamenti impercettibili, trasforma Gregorio, attore debuttante schiacciato da un guru, un padre anche lui attore (la voce è del genitore, l’attore e regista Geppy) e una psicanalista, in uno scarafaggio. Tra redenzione e disperazione come in Kafka. […] Una giornata qualunque del danzatore Gregorio Samsa è interessante per l’intreccio di pedegree artistici: il padre Geppy, Michele Di Stefano, Chiara Lagani, Mirto Baliani e su tutti, il vero guru, Eugenio Barba alla regia.
Rodolfo Di Giammarco [La Repubblica – 29 settembre 2021]
(…) Lorenzo Gleijeses con la guida di un maestro della ricerca come Eugenio Barba (primo impegno fuori dall’Odin Teatret), regia condivisa con lui e con Julia Varley, ha svelato l’intimità di un percorso-performance di relazioni esistenziali con la Metamorfosi di Kafka in ‘Una giornata qualunque del danzatore Gregorio Samsa’. (…)
Impressiona, la meccanicità dei suoi arti, dei polsi e delle mani, del suo energico accovacciarsi a terra, del suo padroneggiare con moduli moderni la grazia al maschile di una Iben Nagel Rassmussen, musa fisica di Barba. Nei frammenti drammaturgici, cui ha saputo collaborare Chiara Lagani e nei movimenti suggeriti da Michele Di Stefano, si fanno largo inserti e basi musicali d’un sempre sintonizzato Mirto Baliani (…). Il prossimo di Samsa è costituito con ironia dai timbri, al cellulare, di una partner discordante, Maria Alberta Navello, mentre Julia Varley è una psicologa esterna. Per gli altri la voce di Gregorio si fa animalesca, e lui cade, o corre verso un sole che non c’è. Il lavoro c’è.
Anna Bandettini [Blog_ La Repubblica – 30 gennaio 2019] Non è la prima volta che Lorenzo Gleijeses incontra Eugenio Barba, il fondatore e regista del leggendario Odin Teatret, un gruppo e un maestro di fama internazionali che hanno segnato la storia del teatro dell’ultimo mezzo secolo. Ma stavolta l’incontro ha dato vita a uno spettacolo emozionante e fuori dal coro che è anche la prima regia di Barba “fuori” dall’Odin, cioè non con attori della sua compagnia. […] la partitura fisica che Lorenzo Gleijeses ha costruito nel recinto di un piccolo spazio bianco quadrato, è sorprendente, per espressività e carica di energia, e conferma la padronanza del linguaggio del corpo di questo attore, davvero speciale. Sullo spettacolo si sente forte la collaborazione con due figure fondamentali: di Barba si è detto. Il grande regista dell’Odin ha accompagnato Lorenzo nella costruzione di un linguaggio fisico che desse conto della miriade di immagini, anche simboliche, del racconto; lo ha accompagnato, come spiega lo stesso regista nel programma di sala, in un doppio tradimento, di Lorenzo verso le proprie radici e di Barba verso il proprio gruppo. Ma l’altra figura fondamentale è Mirto Baliani, grande talento del suono e delle luci, che qui ha creato un vero ambiente irreale ma concretissimo.
Maria Grazia Gregori [DelTeatro.it – 26 gennaio 2019]
Diavolo di un Eugenio Barba! Il grande maestro, anzi il guru del Terzo Teatro, ritorna a Milano ma senza i suoi attori, senza le affascinanti allegorie dell’Odin Teatret. Ci torna, come spiega in un bellissimo scritto che accompagna la scheda di questo spettacolo, per la scelta consapevole di un tradimento. Tutto qui, nello spettacolo Una giornata qualunque del danzatore Gregorio Samsa è – se vogliamo – un “tradimento”: dell’Odin c’è solo il prezioso lavoro fiancheggiatore di Julia Varley oltre ovviamente Barba (che firma con Varley e il protagonista Lorenzo Gleijeses drammaturgia e regia) di cui sentiamo la voce registrata quando dà istruzioni, consigli quasi paterni ma secchi all’attore performer. […] ma quella del nostro Gregorio Samsa è una casa di fantasmi, di inquiete presenze, di suoni misteriosi fino a quando sembra che all’orizzonte appaia qualcosa, chissà, forse un paesaggio accidentato che è un’apertura verso il fuori, lontano dalla claustrofobia di quella stanza popolata di fantasmi e pensieri, soprattutto dal bisogno di farcela di Gregorio. Un lunghissimo applauso del pubblico che ha seguito lo spettacolo con il fiato sospeso alla fine premia la fatica, l’energia impressionante di un bravissimo Lorenzo Gleijeses e anche la sua determinazione di volere ad ogni costo la riuscita di questo incontro con il maestro dei maestri.
Chiara Benzi [10 spettacoli imperdibili del 2020, Birdman Magazine]
La prima regia di Eugenio Barba al di fuori dell’Odin Teatret, affiancato da Julia Varley e dall’attore e interprete dello spettacolo Lorenzo Gleijeses, è un esperimento di grande profondità sul rapporto tra arte e vita, fino alla fagocitazione di quest’ultima. La messa in scena scandaglia la quotidianità di un danzatore nella sua ripetizione maniacale e parossistica della coreografia a pochi giorni dal debutto. In Una giornata qualunque del danzatore Gregorio Samsa l’arte travolge la vita privata del protagonista e la sua routine fin dentro le mura di una casa in cui l’unico contatto con l’esterno è filtrato da un telefono e da una televisione. La rappresentazione della solitudine di Gregorio e della sua totale dedizione all’arte e alla perfezione indagano la linea sottile tra espressione individuale ed espressione artistica e il bisogno universale di dialogo, accettazione e amore.
Emilia Costantini [Il Corriere della Sera ]
È Lorenzo Gleijeses al centro del vertiginoso agone dove le sue membra sfuggono al controllo, dimenandosi in una compulsiva danza meccanica. […] Il povero Gregorio è interpretato con straordinaria forza fisica ed emotiva da Gleijeses…
Maura Sesia [La Repubblica – 20 gennaio 2019] Kafka c’entra nel claustrofobico ménage di un ipercinetico performer che l’ansia da debutto sommata a una dedizione malata al mestiere di teatrante, ha trasformato in alter ego del robottino pulitore con cui condivide lo spazio scenico. Lorenzo Gleijeses è Samsa, insicuro e perfezionista, che non smette mai di provare, dentro e fuori dal teatro. […] curiosa e originale commistione tra espressione corporea e parola, l’opera, che ha l’impronta del terzo teatro del maestro Eugenio Barba, inquieta ma suscita empatia, perché la storia di Gregorio, che si spera alla fine almeno un po’ pacificato, è quella di tutti, incapaci di rifiutare l’ennesimo impegno e di godere di un tempo improduttivo.
Paolo Randazzo [Dramma.it]
Non un semplice passaggio dal linguaggio letterario a quello della scena, ma una decisa riscrittura (e coraggiosa più di quanto appaia) che conserva la vertiginosa, labirintica complessità del capolavoro kafkiano e anzi la rilancia assumendone il nucleo centrale (il senso della metamorfosi bestiale) come nucleo concettuale che può vivere autonomamente e non aderire necessariamente al plot narrativo dell’opera letteraria. In Kafka Gregorio Samsa è un modesto agente di commercio, qui è un danzatore che prova e riprova ossessivamente, guidato da un maestro severo, i segmenti di una sua prossima coreografia. Provare e riprovare, rigorosamente, segmento dopo segmento, movimento dopo movimento, gesto dopo gesto. Provare e riprovare, continuamente, facendosi attraversare dai pensieri e dalle angosce della quotidianità, dalle ferite della relazionalità (il rapporto col padre autoritario, quello con la moglie, le responsabilità), dallo smarrimento di una interiorità che Kafka immagina palesarsi nella forma ripugnante di uno scarafaggio. Provare e riprovare e affinare continuamente il training corporale, approfondire senza stancarsi o, meglio, mettendo la stanchezza al servizio della ricerca della propria essenza più autentica già dentro i confini del corpo. Dove sta quindi la vertigine? Sta nell’accorgersi che ogni ripetizione, reale o potenziale che sia, non è mai un’azione identica alla precedente ed anzi apre varchi di senso e svela un frammento di quell’alterità che ogni uomo porta in sé, di quell’“altro” inconoscibile, spaventoso e, nella sua sostanza assoluta, “perturbante”. Ecco dove si colloca la forza visibile eppure misteriosa di questo spettacolo ed ecco dove colpisce il pubblico: il rigore assoluto e ossessivo nella ripetizione delle partiture coreografiche porta il protagonista a una percezione sempre più chiara dell’inconoscibilità di ciò che, al contrario, vorrebbe conoscere. È chiaro (e si avverte nettamente) che siamo nell’area concettuale della più raffinata cultura novecentesca (psicanalisi, antropologia, antropologia teatrale), ma è chiaro altresì che siamo di fronte a un paradosso archetipico che ci aggredisce e ci riporta allo spavento di Edipo quando finalmente riconosce la mostruosità della sua stessa essenza.
Marco Antonio Lucidi[Blog]
Gleijeses anche attore e performer, quasi danzatore e ginnasta, sicuramente interprete di notevole potenza e tecnica… È una delle possessioni moderne, anche nelle cose d’arte, l’idea che la ripetitività da catena di montaggio, la riproducibilità meccanica del gesto robotizzato portino a una compiutezza senza difetto. L’orrore dell’errore, suprema forma del bigottismo, automatizza l’uomo in un automa alimentato dal terrore del divenire, realizzabile solo per tentativi e pecche, e lo gela nel presente, nella staticità del conservatorismo più reazionario. Ecco perché questo spettacolo non è una riproduzione scenica della Metamorfosi ma ne rappresenta tutto sommato l’opposto. Il romanzo kafkiano come storia di un’involuzione è comunque il racconto di un movimento mentre questo spettacolo si rivela, attraverso la stupefacente serie di movimenti che dipana, la tragedia della fissità… La prova di Lorenzo Gleijeses è fisicamente impressionante. Per fare uno spettacolo così impegnativo, al punto che probabilmente l’attore ogni sera perde chili, bisogna essere molto allenati. Performer solista…si affida interamente al proprio corpo, alla forza del proprio corpo, per raccontare una psiche, la debolezza di una psiche. Magnifico e teatrale paradosso di pelle che annega di sudore e d’occhi che scoppiano di dolore.
Gabriele Amoroso [Brainstorming Culturale]
Una giornata qualunque del danzatore Gregorio Samsa è la prima e probabilmente unica regia di Eugenio Barba al di fuori dell’Odin Teatret. Lo spettacolo, sublime, è un’elaborazione di tre lavori di Franz Kafka e, attraverso l’interazione dello stesso Barba con Julia Varley e Lorenzo Gleijeses, diventa una pagina magnifica di teatro di ricerca. La prestazione di Lorenzo Gleijeses è mastodontica: lo straordinario attore esegue una performance strabiliante nella quale non si risparmia mai; l’energia fisica e mentale dell’interprete è incondizionata fino all’ultimo istante dello spettacolo e tutta la sua prestazione non può essere definita che stupefacente.
Manuela Bauco [Limina Teatri]
Per chi come me conosce il lavoro di Eugenio Barba assistere a Una giornata qualunque del danzatore Gregorio Samsa significa spaesamento e stupore; oltre ad essere il primo viaggio registico compiuto da Barba al di fuori dell’Odin Teatret, è anche un lavoro difficilmente riconducibile all’estetica dell’Odin. Ma attenzione, distanza qui è sinonimo di fertilità…. Lo spettacolo ha tre diversi arterie narrative: alcuni elementi biografici di Lorenzo, la metamorfosi di Gregor Samsa e un immaginario danzatore omonimo. Gregorio Samsa danza con ostinazione e ripete la sua partitura prima del debutto. Prova e riprova, parla con le persone che fanno parte della sua vita attraverso un telefono. Gregorio è solo, Gregorio vive dentro una scatola mentale e lavora. Ripete, ripete, ripete, come un automa. Gregorio è dentro uno spazio fisico/gabbia dove la realtà interviene come una menzogna. Non dialoga, monologa, non ascolta, non viene ascoltato. Noi spettatori, sul palco insieme a Gregorio, abbiamo sudato, respirato con lui, ne abbiamo potuto percepire i palpiti, i tormenti, l’agonia prima della fine, liberatoria. Il teatro è soprattutto la storia degli incontri, delle alleanze, delle fascinazioni dei tradimenti, dei rischi che si è pronti a correre e Lorenzo ha scelto di correrli tutti, restituendolo in un lavoro preciso, chirurgico, denso e complesso.
Sofia Chiappini [Sognatori inquieti] Oscura e familiare è, per certi versi, la metafora entomologica elaborata da Kafka nel celebre racconto de “La Metamorfosi”, di cui “Una giornata qualunque del danzatore Gregorio Samsa” non è un semplice tributo o studio. Il Gregorio Samsa di Barba, Varley e Gleijeses si fa coraggiosamente largo tra le molteplici interpretazioni dell’opera kafkiana, grazie ai pochi ma incisivi rimandi autobiografici dello stesso Lorenzo Gleijeses…. Lo spettatore è perfettamente in grado di cogliere ciò che agita il danzatore Gregorio, che vive con trepidazione ogni istante che lo separa dal debutto. La parola lascia il posto a un corpo straordinariamente presente, vivo e consapevole come quello di Lorenzo Gleijeses… La ripetizione rappresenta uno degli strumenti fondamentali di ricerca e approfondimento dell’attore-danzatore Gleijeses, in cui necessità e libertà si implicano vicendevolmente… Si dà qui un nuovo nome a questo termine, che originariamente rimanda alla fondazione dell’antico teatro greco, ma anche, naturalmente, di quello orientale. È proprio ripetizione, infatti, la traduzione più adeguata della parola greca “mimesis”, in quanto strumento di avvicinamento e visione del divino…. Ad essere mostrato anticamente nelle tragedie non è semplicemente ciò che è stato, ovvero la storia passata – e con essa la nostra famiglia e cultura d’origine -, bensì ciò che in futuro potrebbe accadere. “Una giornata qualunque del danzatore Gregorio Samsa” è uno spettacolo attraversato dal concetto di possibilità, dall’inizio alla fine, in cui persino i sogni più inquieti e terrificanti non sono che un monito a perseguire con tenacia le proprie aspirazioni.
Renzo Francabandera [PAC\\PaneAcquaCulture.it – 7 febbraio 2019] Il rapporto con le scuole e i grandi formatori è un elemento cruciale di ogni arte che parta in sé dalla creatività artigianale. E le arti sceniche non fanno eccezione. Esistono poi artisti che fanno di questo scambio di conoscenze un momento fondante del proprio percorso. […] Lorenzo Gleijeses è senza dubbio fra questi. Un figlio d’arte emancipatosi negli anni dal codice parentale per cercare, nei suoi progetti, vie autonomie ad una creatività non di rado crossmediale, spesso in partnership con altri esperti di linguaggi diversi. È quello che è successo, per esempio, dalla primavera 2015 in avanti, momento dal quale il progetto 58° Parallelo Nord ha riunito in un cantiere teatrale aperto Eugenio Barba e Julia Varley (attrice icona dell’Odin), Luigi De Angelis e Chiara Lagani (Fanny & Alexander), Michele Di Stefano e Biagio Caravano (MK, altra storica compagnia della scena italiana della ricerca), chiamandoli ad intervenire attivamente in sessioni separate di lavoro su alcuni materiali performativi proposti da Lorenzo Gleijeses e dal musicista Mirto Baliani. […] Gleijeses prende di petto il pretesto per affondare il colpo su un tema che per lui ha evidentemente a questo punto del suo percorso un doppio intreccio: il rapporto con la figura del padre/maestro e il tema dell’emancipazione, della ri-trasformazione dello scarafaggio in uomo, quel tentativo che a Gregor Samsa non riesce nel libro.
Franco Acquaviva [Sipario.it – 3 febbraio 2019]
È un dialogo con la luce e il senso della propria posizione nello spazio l’inizio dello spettacolo di Lorenzo Gleijeses, che svela gradualmente un alfabeto di movimenti preciso come una lama e martellante come un’ossessione. Un succedersi di frasi fisiche che tagliano lo spazio in ogni direzione, a indicare, dubitare, voltarsi, torcersi, fermarsi, riprendersi, calare al suolo, per spostamenti repentini giocati su un continuo alternarsi di ginocchia che toccano terra e s’aprono lateralmente in una specie di camminata dimezzata, da granchio; è una dialettica continua tra posizione eretta e schiacciamento della figura al pavimento, con l’apparire periodico di una postura-impulso che richiama l’inossarsi del corpo umano in un carapace. […] così la reiterazione ininterrotta del frammento coreografico, nel suo farsi oggetto polisemico che assume di volta in volta sfumature diverse a seconda del contesto in cui è calato, diventa una sorta di carapace esistenziale, la corazza nella quale Gregorio forse non può che rinchiudersi per sfuggire alla negazione di senso che sembra circondarlo. E ci sembra, questa, un’efficace metafora dell’artista nella società contemporanea: la forza del suo lavoro forse non può che scaturire dalla limitazione, da una struttura costrittiva che lo racchiuda, lama che incide in profondità il tessuto morto della vita, ribellione al flusso dei disvalori e dei nonsensi, che non si perde nella cortina fumogena, e in fondo imbelle quanto quella dei consensi, dei semplici dissensi, piuttosto cerca e crea un proprio senso. Come l’atto di fede di qualcuno che abbia deciso di leggere la vita attraverso la lente di una rigorosa messa in forma artistica, tanto che la metamorfosi di Samsa appare non tanto una disgrazia, ma un antidoto alla fatuità del mondo, alla pressione di chi cerca di riportare tutto a una medietà quotidiana vista come un tedioso rappel à l’ordre. Con un’estetica scenica del tutto diversa, questo, a prima vista, non sembra uno spettacolo dell’Odin; e non lo è infatti in senso stretto; purtuttavia, allo stesso tempo, è in fondo uno spettacolo dell’Odin, ne preserva lo spirito, e anche, in un certo senso, il modello attoriale, dal momento che esso afferma, per forza di disciplina, rigore e invenzione, un caratteristico discorso sul teatro e sull’attore.
Raffaella Roversi [Santinaria.it – 2 Febbraio 2019]
[…]è una danza a scatti, movimenti dettati dalla sofferenza, dalla ricerca di approvazione, dalla necessità di dimostrare. L’incubo ricorrente è la sua metamorfosi in insetto e la sveglia non sentita il giorno del debutto. Lo spettacolo rende l’atmosfera claustrofobica della stanza e del piccolo mondo del danzatore che gli si stringe sempre più intorno al punto da implodere. La musica subisce un’accelerazione, le luci si frantumano, mentre la sua personalità va verso la destrutturazione. É li che inizia la fuga.
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Enrico Pastore [Blog enricopastore.com – 22 gennaio 2019]
[…] Una giornata qualunque del danzatore Gregorio Samsa è frutto del progetto 58mo Parallelo Nord (quello che passa per Holstebro, la casa dell’Odin Teatret). Insieme alla performance Corcovado, lo spettacolo nasce sotto l’egida di diverse supervisioni artistiche. Il materiale viene sottoposto via via all’occhio di un diverso artista che agisce trasformando a sua volta quanto emerso dagli incontri precedenti. Una sorta di catena di trasfigurazioni fino al raggiungimento di una forma non frutto dell’artista creatore quanto di una galassia teatrale alquanto eterogenea. […]Una giornata qualunque del danzatore Gregorio Samsa si sostanzia come una partitura fisica intensa e complessa che coinvolge tutti i materiali a disposizione.
Emma Pavan [Bologna Teatri – 6 febbraio 2019]
[…]nei monologhi allucinati di Gregorio i frammenti delle parole di Kafka, delle Metamorfosi, della Lettera al padre, si incollano ai suoi gesti, estremizzati dalla coreografia in uno disperato tentativo di liberazione. I suoni e le luci, sempre più martellanti, colpiscono il danzatore come prese di coscienza pronte a ricadere nell’oblio, in un’atmosfera via via più onirica. Finché il confine tra sogno e realtà si scioglie tra gli angoli di un corpo che sa riconoscersi solo in una coreografia perfetta. Il maestro non risponde più. Il fascio luminoso che limita lo spazio in cui danzare non ritorna. Nell’oscurità finale solo una rotonda e calda luce si proietta in lontananza sulla parete. A Gregorio non resta che una corsa verso il buio.